da: https://www.segnalo.it/TRACCE/CIT/CIT.htm
CULTURE
«L’Occidente non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione ma
attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata (il potere militare). Gli occidentali lo dimenticano
spesso, i non occidentali mai. (…) Alcuni occidentali hanno sostenuto che l’Occidente non ha alcun problema con
l’Islam, ma solo con gli estremisti islamici violenti. Millequattrocento anni di storia dimostrano tuttavia il contrario. I
rapporti tra Islam e cristianesimo sono stati spesso burrascosi. Per entrambi, la parte opposta ha sempre
rappresentato “l’Altro” (…) Le cause di questa costante conflittualità non vanno ricercate in fenomeni transitori quali
il fervore cristiano del XII secolo o il fondamentalismo musulmano del XX, bensì nella natura stessa di queste due
religioni e delle civiltà su di esse fondate, nelle loro differenze e nelle loro similitudini». Perciò, «una guerra planetaria
che coinvolga gli stati guida delle maggiori civiltà del mondo è altamente improbabile ma non impossibile. Un simile
conflitto potrebbe scaturire dall’escalation di una guerra (locale) tra musulmani e non musulmani».
Sono passati più di dieci anni da quando Samuel Phillips Huntington propose questa lettura delle future relazioni
internazionali alla luce di una netta contrapposizione tra ciò che definiva come “Islam” e ciò che definiva come
“Occidente”. L’11 settembre non c’era ancora stato, l’amministrazione statunitense non aveva ancora dichiarato la
“guerra permanente al terrorismo”, il dibattito internazionale ruotava in larga misura intorno alle promesse annunciate
dal pieno dispiegarsi dei processi di globalizzazione. Eppure, era proprio muovendo da un’analisi del “nuovo” mondo
globalizzato, che questo docente di Harvard – stimato specialista di studi strategici e direttore del John T. Olin
Institute for Strategic Studies – aveva pubblicato, già nel 1993, sulla rivista da lui fondata, Foreign Affairs, un
articolo intitolato “The Clash of Civilizations?” che sarebbe poi stato sviluppato nell’omonimo saggio del 1996, edito
dall’importante editore Simon and Schuster e tradotto in tutto il mondo (in Italia la prima edizione è del 1997, Lo
scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti).
Da allora, le tesi di Huntington che annunciavano come possibile, prossimo e in qualche misura inevitabile lo “scontro
di civiltà” tra gli occidentali e i musulmani – i primi rappresentati come i depositari della filosofia dei diritti dell’uomo e i
secondi più o meno come dei “barbari” – hanno non solo caratterizzato il dibattito politico e culturale internazionale,
ma, come una sorta di terribile profezia, sono apparse come il drammatico annuncio di quanto poi si sarebbe
concretamente verificato. Questo almeno in apparenza. In realtà, Lo scontro delle civiltà è diventato la bandiera
dietro la quale buona parte delle culture di destra dell’Occidente hanno ridefinito la propria identità. Dalla dottrina
neoconservatrice sbarcata alla Casa Bianca fin dalla prima elezione di George W. Bush alla guida degli Stati Uniti nel
2000, ai tanti paladini dell’identità occidentale apparsi negli ultimi anni in Europa, da Orfana Fallaci a Pym Fortuyn,
solo per citare due esempi, tutti sembrano aver fatto proprie le parole di Huntington. Così, come sottolinea Mondher
Kilani, docente di Atropologia culturale dell’Università di Losanna, in Niente sarà più come prima (Medusa, 2002):
«Sono parecchi i commentatori occidentali che, dopo l’11 settembre, hanno tenuto a ricordare l’origine occidentale
dei diritti dell’uomo, contribuendo così (…) a sostenere la profezia autorealizzantesi della tesi di Huntington sullo
“scontro di civiltà”. Una tesi che, come è noto, ha la particolarità di scambiare la conseguenza (i conflitti e le
contraddizioni che risultano da rapporti di forza storici e congiunturali) con la causa (una irriducibilità di valori tra
l'”Occidente cristiano” e il “mondo arabo-musulmano”)».
Le tesi di Huntington, un conservatore vicino ma non assimilabile tout-court all’ambiente neocon americano, hanno
così finito per assumere il significato di una via d’uscita da destra di fronte alla crisi dello Stato-nazione e all’avvento
dell’era globale. «La mia ipotesi – spiegava infatti l’autore di Lo scontro delle civiltà – è che la fonte di conflitto
fondamentale nel mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni
dell’umanità saranno legate alla cultura (…) I conflitti più importanti avranno luogo tra gruppi di diverse civiltà».
«Questo perché – aggiungeva Huntington – nel mondo post-Guerra fredda, la cultura è una forza al contempo
disgregante e aggregante. Popolazioni divise dall’ideologia ma culturalmente omogenee vengono a unificarsi, come
hanno fatto le due Germanie (…) Società unite dall’ideologia o da circostanze storiche ma appartenenti a differenti
civiltà finiscono viceversa con lo sgretolarsi, com’è accaduto all’Unione Sovietica».
La rinascita identitaria, le tendenze comunitaristiche, “la rivincita di Dio” – come lo stesso Huntington definiva il
prepotente ritorno della religione nella politica e nella sfera pubblica di molte società – più che essere presentate
come altrettante possibili derive assunte dall’umanità in una condizione di crisi, diventavano “la risposta” alle
trasformazioni introdotte dalla globalizzazione. Al punto che lo scienziato politico di Harvard annunciava già
all’epoca quelli che sarebbero stati i temi delle sue riflessioni successive, raccolti nel 2004 in La nuova America. Le
sfide della società multiculturale (Garzanti, 2005), un violento manifesto contro il modello di melting pot statunitense e
in particolare contro l’emergere della presenza degli immigrati “latinos” negli Usa. «La cultura occidentale – si poteva
leggere in Lo scontro delle civiltà – è minacciata da gruppi operanti all’interno delle stesse società occidentali. Una
di queste minacce è costituita dagli immigrati provenienti da altre civiltà che rifiutano l’assimilazione e continuano a
praticare e propagare valori, usanze e culture delle proprie società d’origine. Questo fenomeno prevale soprattutto
tra i musulmani in Europa, che sono, comunque, una piccola minoranza, ma è presente anche, in minor misura, tra gli
ispanici degli Stati Uniti, che invece sono una minoranza molto nutrita».
Le “civiltà” poste da Huntington al centro della sua riflessione rappresentano perciò entità definite, stabili e
connotate secondo criteri pressoché “etnici”, al punto che la frontiera che lui stesso fa correre tra occidentali e
musulmani conosce poi il suo doppio all’interno di ogni società tra gli “autoctoni” e gli “stranieri”. «Il politologo di
Harvard – spiega a questo riguardo Annamaria Rivera, etnologa dell’Università di Bari e autrice di La guerra dei
simboli (Dedalo, 2005) – propone, attraverso nozioni totalizzanti come quella di civiltà, una configurazione dei
rapporti di forza internazionali basata su rigide linee di frattura culturalreligiose. Nella “cattiva antropologia” di
Huntington, le “civiltà” sono viste come universi compatti, autonomi, irriducibili, potenzialmente o effettivamente ostili
l’uno all’altro; i rapporti del cosiddetto Occidente con altre aree, paesi e culture sono rappresentati nei termini
dell’opposizione fra the West and the Rest».
Sono “mondi chiusi”, impenetrabili, quelli che, secondo Huntington, sono destinati ad incrociarsi solo per l’inevitabile
clash. In questo quadro, si può leggere ancora ne Lo scontro delle civiltà, «il vero problema per l’Occidente non è il
fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale, una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte della
superiorità della propria cultura e ossessionate dallo scarso potere di cui dispongono. Il problema dell’Islam non è la
Cia o il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ma l’Occidente (…) Sono questi gli ingredienti di base che alimentano
la conflittualità tra Islam e Occidente». Perciò, come suggerisce il sociologo afro-britannico Paul Gilroy nel suo Dopo
l’impero (Meltemi, 2006) «vecchie questioni coloniali tornano in gioco quando i conflitti geopolitici vengono declinati
come una battaglia tra civiltà omogenee». Gilroy paragona il libro di Huntington al Saggio sull’ineguaglianza delle
razze pubblicato a metà dell’Ottocento dal conte de Gobineau e considerato come il testo fondante il razzismo
moderno. «Nonostante le molte differenze – spiega il sociologo –, entrambi gli autori condividono la preoccupazione
per le dinamiche di mutua repulsione delle civiltà e le disastrose conseguenze dei tentativi di incrocio. Gobineau
identificò il pericolo mortale per le civiltà in ogni deviazione dalla “omogeneità necessaria alla loro vita” (…)
Huntington specifica lo stesso tipo di problema, geopolitico e scientifico-razziale, sotto forma aforistica, nell’idioma
contemporaneo del multiculturalismo e della globalità».
CULTURE
conflitto etnico
conflitto ètnico Locuzione con cui nelle scienze sociali si fa riferimento ai conflitti in cui i protagonisti principali
organizzano le proprie posizioni ideologiche sulla base dell’appartenenza a uno specifico gruppo etnico, i cui valori
culturali e religiosi vengono ritenuti preferenziali e utilizzati come strumenti identitari da opporre a quelli di altri gruppi
compresenti nel medesimo ambito territoriale. Soprattutto presso le moderne società industrializzate le cause dei
conflitti etnici vanno ricercate nelle contraddizioni del più vasto sistema sociale in cui essi hanno luogo, all’interno del
quale antagonismi di varia natura sono concettualizzati e gestiti nei termini dell'”etnicità” dei gruppi coinvolti.
In
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