Sarà indelicato, tra le mimose dell’ 8 marzo, cercare almeno per un giorno di riflettere sulle cifre sconvolgenti del Gendercide, il genocidio di genere denunciato dall’ ultima copertina dell’Economist? E sarebbe anche il caso di ripetere la stessa domanda che, ricorda il Foglio, venne formulata già sette anni fa sull’organo di stampa più autorevole dell’establishment anglosassone, il Financial Times: «Dove sono andate a finire tutte le ragazze?». Scomparse, inghiottite nel nulla, costrette a non nascere con le procedure di sterminio dell’aborto selettivo e dell’eugenetica di Stato. Cento milioni di bambine sacrificate. «163 milioni di bambine mancanti in Asia», secondo i dati della Conferenza asiatica sui diritti riproduttivi. Se non è genocidio di genere, come altrimenti definire questa ecatombe di dimensioni apocalittiche? Si dice che in Cina e nell’India del Nord per ogni 120 maschi nascono solo 100 femmine, mentre la media mondiale è di 103-106 maschi ogni 100 femmine. Se non è il destino, il caso, la sorte, la coincidenza, come mai mancano all’ appello almeno 15 femmine per ogni centinaio di nati maschi in quella parte del mondo? E se è aborto eugenetico di massa, quale altra violazione di diritti umani fondamentali è paragonabile a questo massacro silenzioso, a questa emergenza umanitaria trascurata o misconosciuta se non da tutti, da molti di noi (chi scrive compreso)? Non è nemmeno una tragedia della povertà, un orrore dell’ arretratezza. A Taiwan e Singapore non si muore di fame e l’Economist nota che «in Cina e in India le aree con le peggiori statistiche demografiche sono quelle più ricche e istruite».
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