Sono davvero in aumento le povertà urbane in Italia? Un mito da sfatare secondo Giovanni Sgritta

Sono davvero in aumento le povertà urbane in Italia? Un mito da sfatare secondo Giovanni Sgritta, professore di sociologia alla Sapienza di Roma e già componente della Commissione di indagine sull’esclusione sociale.

Partendo dai temi affrontati dai Quaderni del Welfare, Cittalia avvia una riflessione con i principali esperti italiani di povertà urbane, housing sociale e servizi locali per analizzare la risposta data dai vari livelli istituzionali alle principali istanze sociali e confrontarle con quanto realizzato negli altri paesi europei.

Sono davvero in aumento le povertà urbane in Italia? Un mito da sfatare secondo Giovanni Sgritta, professore di sociologia alla Sapienza di Roma e già componente della Commissione di indagine sull’esclusione sociale. Partendo dai temi affrontati dai Quaderni del Welfare, Cittalia avvia una riflessione con i principali esperti italiani di povertà urbane, housing sociale e servizi locali per analizzare la risposta data dai vari livelli istituzionali alle principali istanze sociali e confrontarle con quanto realizzato negli altri paesi europei.

Da quali indicatori è possibile notare un aumento della povertà familiare in Italia negli ultimi anni?
In realtà non c’è stato un aumento. È un tema che va sfatato, purtroppo. La povertà in Italia è relativamente stabile e ciò indica che le misure di contrasto non hanno funzionato. Uno dei caratteri della povertà in Italia è la sua ciclicità, il suo trasmettersi di generazione in generazione. Secondo l’indice di elasticità di trasmissione dell’ineguaglianza calcolato dall’Ocse, che misura la differenza di reddito fra genitori e figli, si rileva che in Italia per il 50% le diseguaglianze vengono ereditate da generazione a generazione, cosa che in altri paesi non succede o che avviene in misura minore che in Italia. In Italia la diseguaglianza è alta, permanente e si trasmette lungo le generazioni. Oltre che per questi elementi, il modello italiano di povertà si contraddistingue per il fatto che la povertà passa attraverso la famiglia.

Per quale ragione?
La povertà passa attraverso la famiglia perché aumenta con l’aumentare del numero dei figli e aumenta in situazioni specifiche come nelle famiglie numerose, in quelle monoparentali o anziane. In particolare, per quanto riguarda i figli minori, che vedono aumentare in maniera esponenziale la povertà con l’aumento numero dei figli, ciò non dipende dal fatto che i figli non lavorano ma dalla mancanza di efficaci politiche di sostegno. Nascere in famiglie povere significa condividere in solido la condizione di povertà del capofamiglia, uno stato che si trasmette ai figli soprattutto in famiglia monoreddito. In termini di povertà minorile, in Europa l’Italia è superata solo da Bulgaria, Romania e Lettonia.
Solo di recente si è fatto il punto sull’emergere delle nuove povertà ma nonostante sia un fenomeno sempre più visibile spesso lo si lascia a margine soprattutto nella programmazione degli interventi.

A quali ragioni adduce questa ondivaga attenzione sul tema?
Anche questo delle nuove povertà è stato un tema utilizzato per giustificare la mancanza di interventi in materia. La povertà è sempre la stessa ma in realtà sta aggredendo nuove categorie: abbiamo nuovi poveri non nuove povertà. La crisi in particolare ha messo in condizioni di povertà fasce di popolazione che prima erano protette. Gli effetti della crisi sul mercato del lavoro sono stati molto pesante perché si sono persi molti posti di lavoro, è aumentato il precariato e i precari hanno perso quel poco di lavoro che svolgevano. Qui è intervenuta un’altra funzione della famiglia, quella di fare da argine alla povertà: moltissimi posti di lavoro sono stati persi soprattutto dai figli e senza l’intervento delle famiglie la situazione sarebbe sfociata in un forte aumento dei livelli di povertà. Dice bene il direttore della Caritas torinese in un libro uscito poco tempo fa, “vino nuovi in otri vecchi”. Siamo di fronti a nuovi poveri e vecchie povertà.

Cosa non ha funzionato nelle strategie di intervento di sostegno alle famiglie?
L’elemento mancante continua a mancare ed è una misura di intervento di reddito minimo o di garanzia. Questa misura in Italia, unico paese in Europa assieme all’Ungheria, non esiste. Non è una misura contributiva ma è l’unica misura che potrebbe arginare la povertà in un soggetto che si trova di punto in bianco in una situazione di difficoltà. I vari libri bianchi e verdi del Ministero del Lavoro escludono che si possa metter mano ad una misura del genere.

Perché?
I motivi sono due. La valutazione della sperimentazione del reddito minimo d’inserimento, attuato quando Livia Turco era ministro degli affari sociali, lasciò perplessi per le modalità in cui venne gestita. C’erano state molte inefficienze, i comuni dimostrarono di essere incapaci di gestire questa misura, solo in poche realtà si realizzò un vero e proprio accompagnamento al lavoro che si unisse all’elargizione di denaro. Non aiutò il fatto che molti di questi comuni sperimentali si trovassero al sud e non erano in grado di compiere questo tipo di lavoro. Il secondo motivo è che in una fase di crisi i soldi non ci sono e questa è una misura molto costosa, che oggi viene sostituita da misure come pensioni di invalidità assegnate un po’ alla cieca in molte parti d’Italia. Poi si ha paura di una sorta di arrembaggio che potrebbe venire da situazioni di tipo assistenzialistico o parassitario pronte a mettere le mani su questo intervento e farlo diventare patologico. Il paese forse non è ancora pronto per questo tipo di interventi perché c’è bisogno di un forte senso civico per attuare misure simili.

Quali altri interventi sono stati lanciati in favore delle famiglie? E con quali risultati?
Una misura che ebbe una certa efficacia fu quella per il terzo figlio, che ha dato buoni risultati ma ora rimane solo la carta acquisti, un obolo di 40 euro sempre positivo perché sono soldi che entrano nelle tasche di chi non ha niente ma è una misura che è andata solo al 18 per cento delle famiglie in povertà assoluta, che equivale a circa il 2,3 per cento delle famiglie in assoluto, quindi cifre modeste. Il Bonus famiglia ha invece un vizio di forma, poiché va solo a bambini sotto ai tre anni e agli anziani sopra ai 65, lasciando fuori tutte le famiglie con bambini tra i tre anni e l’età maggiore, quindi una buona parte dei soggetti che sono entrati in difficoltà. Il resto è rappresentato da misure piccole e lo si vede dalla quota di spesa sociale che l’Italia devolve alla famiglia rispetto agli altri paesi. Siamo il paese che si vanta di essere più attento alla sue famiglie, ma solo a chiacchiere. Paesi come la Svezia fanno molto di più di quanto faccia l’Italia.

In che modo differiscono gli interventi adottati in Italia con quanto realizzato nel resto d’Europa?
Molti paesi sono legati ad una certa visione di società e del cittadino. Un piccolo esempio: da noi i figli sono figli e non cittadini, dipendono dalla famiglia e dai genitori e condividono la loro condizione. In altri paesi sono considerati cittadini e come tali non sarebbe giusto far pagare loro la condizione dei genitori, con un principio di carattere universalistico. Il secondo elemento è dovuto al fatto che in alcuni paesi negli anni Sessanta, con l’ingresso della donna nel mercato del lavoro, si è reagito immediatamente all’abbassamento della natalità con misure molto drastiche, che hanno creato una piattaforma di politiche sociali efficiente e adeguata (soprattutto nei paesi del Nord Europa). In questo modo sono riusciti ad evitare quel piccolo dramma del calo delle nascite che in Italia ci siamo creati da soli. Ora questi paesi presentano un alto tasso di occupazione femminile e un alto livello di natalità, l’esatto contrario di quanto avviene da noi.

Quali sono gli interventi più significativi che possono essere adottati per ridurre la pressione esistente sui nuclei familiari?
In questo momento è un po’ difficile perché bisognerebbe recuperare risorse dalla lotta all’evasione e cercare di destinarle alle fasce più deboli con interventi a favore dei poveri e dell’infanzia ma anche per realizzare azioni maggiori che riguardino la variabile virtuosa del fattore femminile. Se riuscissimo ad aumentare in maniera notevole l’occupazione femminile, come suggeriscono anche i parametri di Lisbona, avremmo un volano virtuoso di rilancio dell’economia della crescita. Questo vuol dire far aumentare le risorse disponibili in famiglia e al contempo una significativa riduzione dei rischi della povertà. Inoltre porterebbe alla nascita di un numero maggiore dei servizi, attivando così un circolo virtuoso che ha dato ottimi risultati in tutti i paesi in cui è stato adottato.

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Un commento

  1. Come considerare chi utilizza il mezzo pubblico??

    In tanti paesi europei, è una persona di qualsiasi ceto sociale– In Italia, il Trasporto Publico è penalizzato… quando lo si usa.. si dice..”sono costretto” e chi può usa il mezzo privato aumentando spese e inquinamento… quì un video interessante http://www.youtube.com/watch?v=fMzGasLd_w8&feature=channel_video_title tratto dalla campagna di sensibilizzazione http://www.muoviamoci.org./

    "Mi piace"

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