DAL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE AI SERVIZI SANITARI REGIONALI: REALTA’ E PROSPETTIVE PER IL GOVERNO DELLA SALUTE,   di Luigi Colombini, 7 agosto 2024

DAL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE AI SERVIZI SANITARI REGIONALI:  REALTA’ E PROSPETTIVE PER IL GOVERNO DELLA SALUTE,   di Luigi Colombini

già Docente di legislazione ed organizzazione dei servizi sociali – Università statale UNITRE – Roma – Corsi di laurea in DISSAIFE e MASSIFE

BREVE STORIA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE

PARTE PRIMA

LA SANITÀ FINO AL SECONDO DOPOGUERRA

La storia della sanità in Italia è caratterizzata da un lento e difficile cammino strettamente collegato alla stessa organizzazione politico-istituzionale dello Stato nel corso dei suoi centocinquanta e più anni.

Nel marzo 1865 :con la Legge Rattazzi fu disposto che la tutela della salute era demandata al Ministero dell’Interno e ai suoi rappresentanti periferici .

La legge era composta di 6 allegati (uno dedicato alla sanità pubblica che assegnava ai Comuni il compito di redigere i Regolamenti di Igiene ).

Con la Legge n. 5849 del 22 dicembre 1888 ( Crispi – Pagliani) fu in effetti disegnato il primo assetto della sanità pubblica, con l’istituzione di una apposita Direzione Generale presso il Ministero dell’Interno, con i Consigli provinciali, e con l’istituzione a livello comunale del Medico condotto e ufficiale sanitario. (1)

Sul piano delle prestazioni sanitarie, inizialmente, la configurazione ed organizzazione dei servizi ed interventi sanitari era legata ad una concezione assolutamente non universalistica, che si basava in effetti su una organizzazione caritatevole che trovava il suo fondamento nelle IPAB, istituite con la legge n. 6972 del 17 luglio 1890) con particolare predilezione per specifiche categorie di poveri, e con scarsi interventi pubblici. (2)

Accanto a tale iniziale situazione occorre anche ricordare quelle che furono le prime organizzazioni autonome dei lavoratori per affrontare insieme i problemi ed i bisogni sanitari, per i quali non era più possibile rispondere con singole risorse.

Ci si riferisce in particolare alle Società di Mutuo Soccorso, che ebbero un ruolo notevole nella organizzazione sanitaria del Paese. Già nel 1885 esistevano in Italia 4.768 società di mutuo soccorso con 730.465 soci.

Il loro progressivo sviluppo indusse il governo di allora a dettare norme per la loro costituzione ed il loro funzionamento (legge 15 aprile 1886, n. 3818: Costituzione legale delle società di mutuo soccorso). Il parallelo sviluppo delle organizzazioni sindacali determinava il sorgere di mutue aziendali, comunali e di categoria.

Già allora, comunque, nell’andamento delle Società di mutuo soccorso e delle mutue aziendali si registravano gravi difficoltà finanziarie ed organizzative.

Secondo quanto riportato negli “Atti della Commissione del Ministero Industria e Commercio: l’Assicurazione obbligatoria contro le malattie (1920), all’inizio la mutualità è stata caratterizzata dal carattere privatistico e volontaristico della sua organizzazione, identificandosi prevalentemente con l’assistenza malattia.

Nel 1924 si contavano in Italia 5.719 mutue di cui 2.130 riconosciute dallo Stato e 3.859 di fatto; gli iscritti erano calati da 926.00 di qualche anno prima a 880 mila, a dimostrazione delle difficoltà esistenti.

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(1) La connotazione di medico condotto porta alla memoria la presenza diuturna e costante di un operatore

conductus” per garantire l’assistenza nelle comunità locali.

(2) – Illuminante a tale proposito è la pubblicazione di Enrico Rosselli “Cento anni di legislazione sociale 1848-1950.

Nel 1928, dopo alcuni atti preliminari e circoscritti ad alcune zone (Friuli V.G,, Trentino Alto Adige (dove già esisteva per la precedente amministrazione austro-ungarica), viene introdotta la mutualità professionale.

Inizia in tal modo il sistema assicurativo riferito a categorie di lavoratori e di professionisti (3).Per chi non era tutelato dell’”ombrello mutualistico” il fronte dell’assistenza sanitaria era completato dai comuni, che dovevano erogare agli iscritti nell’elenco dei poveri e degli aventi diritto all’assistenza sanitaria gratuita prestazioni mediche ed ostetriche. Tale tipo di organizzazione aveva il corrispettivo nell’organizzazione assistenziale: molteplici erano gli enti nazionali e locali che si interessavano di specifiche categorie di clienti, e ciascuno aveva una ritagliata fetta di competenze e di finanziamenti.

Conseguenza di tale tipo di organizzazione sanitaria era una esasperata verticalizzazione degli interventi e dei servizi sanitari, la mancanza di coordinamento, la categorizzazione degli utenti, la disparità di trattamento legata a prestazioni e servizi assolutamente diversificate.

Nel prosieguo delle modalità istituzionali ed organizzative relative alla realizzazione di servizi ed interventi in ambito sanitario, durante il periodo del regime fascista fu confermata la scelta politica volta a “entificare” i bisogni sanitari della popolazione con la costituzione di specifici Istituti assistenziali; tale deciso orientamento, proprio dello Stato corporativo, a precostituire specifiche aree di riferimento e di dipendenza, secondo il principio dell’assicurazione obbligatoria dai rischi delle malattie, degli infortuni e dell’invalidità: è il periodo in cui nacquero l’ENPAS, l’ INADEL, l’INAM, l’ ENPDEP, l’INAIL, per citare i più importanti.

Ai Comuni veniva confermata la competenza a gestire i servizi di prevenzione e di assistenza sanitaria di base per gli aventi diritto all’assistenza sanitaria gratuita, mentre le province gestivano i consorzi obbligatori per la lotta contro la tubercolosi, nonché l’assistenza psichiatrica con la gestione dei manicomi.

IL DIRITTO ALLA SALUTE NELLA COSTITUZIONE

Con la Costituzione della Repubblica la salute assume un valore ed un riconoscimento assoluti. Rientra infatti nel Titolo II: diritti e doveri dei cittadini – Rapporti etico-sociali:

Art. 32. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, (4) garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”

Il quadro propositivo più importante è dato dall’obiettivo posto dallo Stato a promuovere il benessere sanitario dell’individuo, e quindi a prescindere dalla cittadinanza si afferma il diritto universale di chiunque si trovi nel territorio italiano ad essere assistito e ad essere tutelato nell’esercizio del diritto alla salute.

In relazione all’assunto del diritto alla salute, furono avviati documenti e studi relativi alla realizzazione del sistema sanitario che fosse in grado di superare il sistema sanitario vigente, e, in linea con i modelli europei, definire un quadro organico di riferimento.

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(3) si calcola, all’epoca, che esistono circa cinquanta enti mutualistici che svolgono la loro attività per l’erogazione di prestazioni medico-generiche, specialistiche, farmaceutiche ed ospedaliere, in rapporto ala specifica categoria di appartenenza, con erogazione di prestazioni in forma diretta o a rimborso.

(4) Sono pertanto assolutamente fuori luogo le tentazioni e le affermazioni di politici razzisti ed incolti che hanno inteso limitare l’esercizio di tale diritto ai soli cittadini, escludendo, ad esempio, gli stranieri e gli immigrati.

La più remota fu la Commissione “D’Aragona” del 1948, che, ispirandosi al piano Beveridge, prevedeva una copertura assicurativa globale per tutti i lavoratori e le loro famiglie, nonché l’unificazione del sistema assistenziale in un unico organismo.

Il progetto non venne mai concretizzato: nell’immediato dopoguerra fu invece confermato l’orientamento alla “entificazione” del bisogno sanitario espresso dalla popolazione, e negli anni ’50 furono create altre “mutue” rivolte, con l’offerta di prestazioni assolutamente ridotte, agli artigiani 1954), ai commercianti (1956), ai coltivatori diretti (1959).

PARTE SECONDA

L’ORGANIZZAZIONE SANITARIA DI BASE PRIMA DELLA RIFORMA SANITARIA

1L SISTEMA SANITARIO FINO AL 1958

Le prospettive di cambiamento della sanità secondo le linee tracciate dalla Commissione D’Aragona furono ignorate, e si portò invece avanti una organizzazione sanitaria italiana basata su un organigramma molto complesso, che faceva sostanzialmente perno su una vetusta e netta separazione fra il momento della prevenzione, della cura e della riabilitazione, e con l’attribuzione di competenze molteplici a svariati organismi non collegati fra loro.

Infatti la preponderanza degli Enti mutualistici e la scelta politica di mortificare le autonomie locali e di privilegiare invece la verticalizzazione degli interventi sul territorio, nei fatti non ha reso possibile il raggiungimento di quanto già prospettato dalla citata Commissione.

Si è scelta dai governi di allora la politica del sottogoverno, con l’occupazione strategica di enti ed istituzioni garantita a personaggi appartenenti a organizzazioni politiche di area governativa, secondo un modello burocratico basato sull’accentramento e sulla organizzazione gerarchica.

La prevenzione

L’Alto Commissariato per l’Igiene la Sanità Pubblica (ACIS), incardinato nel Ministero dell’Interno, aveva sostanzialmente il compito della tutela della sanità pubblica, del coordinamento e della vigilanza tecnica sulle organizzazioni sanitarie e sugli enti che svolgevano la prevenzione e la lotta alle malattie cosiddette sociali.

Al livello periferico operava il Prefetto (con alle dipendenze il Medico provinciale e il veterinario Provinciale), quale massima autorità sanitaria della Provincia.

Al livello provinciale operavano altresì, gestiti dalle Amministrazioni provinciali, i laboratori provinciali di igiene e profilassi.

All’ulteriore livello periferico erano i Comuni, nei quali l’autorità sanitaria era rappresentata dal Sindaco, con l’Ufficiale sanitario alle sue dipendenze.

Pertanto l’organizzazione sanitaria meramente pubblica era quindi prevalentemente orientata a svolgere compiti di profilassi, di vigilanza igienica e di prevenzione.

In tale quadro vanno ricordati i Consorzi Provinciali antitubercolari, i Comitati provinciali per la lotta antimalarica, che svolgevano essenzialmente compiti di prevenzione e di profilassi.

Infine, sempre sul piano della prevenzione, l’ONMI (Opera nazionale maternità e Infanzia), con la propria rete di consultori pediatrici, materni e dermoceltici, aveva il compito di controllare lo sviluppo e il buon andamento sul piano sanitario preventivo e profilattico della gravidanza e della prima infanzia.

La cura

L’assistenza sanitaria era caratterizzata dalla conferma del sistema cosiddetto mutualistico, inteso come difesa comune di assicurazione dall’evento morboso di categorie di cittadini accomunati dalla stessa condizione di lavoro e di appartenenza a determinati datori di lavoro, pubblici e privati.

L’assistenza sanitaria, secondo quella che è stata una scelta politica che risaliva al fascismo, veniva assicurata con l’avvalersi di specifici enti pubblici, con proprio patrimonio e proprie risorse e strutture, e alimentati dai contributi obbligatori dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Pertanto veniva confermata l’esistenza, per ogni categoria di lavoratori di specifici enti di assicurazione e di assistenza malattia, già sopra indicati: INAM (Istituto Nazionale Assicurazione – e non Assistenza – Malattie), ENPAS (Ente Nazionale Previdenza ed Assistenza per i Dipendenti statali),INADEL (Istituto Nazionale Dipendenti Enti Locali), ENPDEP (Ente Nazionale Previdenza Enti di Diritto Pubblico), ENPALS (Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza lavoratori dello Spettacolo), Fed. Naz. Casse Mutue Coltivatori Diretti; Artigiani; Commercianti ecc.

Tali enti erano costituiti da un apparato centrale e da diramazioni periferiche, in genere provinciali o con bacini di utenza intercomunali, rigorosamente calati sul territorio in modo verticale, ciascuno con specifiche fette di utenti.

Nell’ambito della cura, peraltro, vigeva il sistema delle convenzioni, che consentivano agli enti mutualistici di stabilire con i medici, quali prestatori di opera professionale, un rapporto in base la quale questi provvedevano all’assistenza sanitaria generica e specialistica per i cittadini iscritti alle specifiche “casse mutue”.

Gli stessi enti gestivano poi direttamente ambulatori e poliambulatori, ovviamente soltanto per i propri iscritti.

La rete ospedaliera era preposta all’assistenza sanitaria di tipo acuto, per gli interventi che rendevano necessario il ricovero.

La risposta dell’ospedale era comunque totalizzante, perché in effetti non era soltanto di carattere sanitario, ma anche assistenziale (gli anziani, molto spesso “svernavano” in ospedale), mentre la proiezione esterna era articolata su una propria organizzazione ambulatoriale, aperto anche alla popolazione non ricoverata.

Il quadro della cura era altresì completato dalla presenza dei Comuni e delle Amministrazioni provinciali, secondo le competenze sopra illustrate.

La riabilitazione

Per ciò che concerne la riabilitazione, in pratica tale attività veniva coperta dall’INAIL, e veniva fatta prevalentemente a favore degli invalidi del lavoro.

L’EVOLUZIONE FRA IL 1958 E IL 1970

La ricomposizione della sanità pubblica: il rilancio del Comune

Il primo sintomo di cambiamento di ebbe nel 1958, allorquando fu istituito il Ministero della sanità (L. 13.3.58, n. 296: “Costituzione del Ministero della Sanità”), che subentrò all’AICS quale vertice statale della politica sanitaria, anche se va ricordato che comunque varie altre competenze di carattere sanitario erano ancora attribuite a vari Ministeri (Ministero della difesa, Ministero della pubblica istruzione, Ministero dei lavori pubblici, Ministero del lavoro,

Ministero dei trasporti, Ministero della marina mercantile).

Al livello periferico il medico provinciale veniva ad essere considerato il responsabile primario della sanità pubblica, e l’Ufficiale sanitario rappresentava il riferimento periferico a cui il medico provinciale si rivolgeva nell’emanazione di direttive ed indirizzi in ambito sanitario e profilattico.

Nel 1961 (DPR 11.2.61, n. 249 “Disposizioni relative agli enti operanti nel settore sanitario” ;

DPR 11.2.61, n.264 “Disciplina dei servizi e degli organi che esercitano la loro attività nel campo dell’igiene della sanità pubblica”) furono emanati provvedimenti legislativi che segnavano un ulteriore passo nel tentativo di spostare l’asse del sistema sanitario dalla preponderanza della cura alla promozione della salute, individuando nel Comune il perno fondamentale per il superamento dalla “cultura” degli enti alla “cultura della salute”.

Difatti furono emanate norme concernenti:

il ruolo dell’Ufficiale sanitario: organo periferico del Ministero della sanità, dipendente, nell’esercizio delle sue funzioni, direttamente dal medico provinciale

l’istituzione del servizio di medicina scolastica (a livello comunale).

L’istituzione dei centri di medicina sociale, gestiti dalle province.

Tali provvedimenti suscitarono interesse e speranza, specialmente negli enti locali, che in tal modo venivano riconosciuti nel loro ruolo di custodi e responsabili dello stato di salute della popolazione scolastica e delle attività di prevenzione nella lotta contro le malattie sociali.

Tale scelta politico-istituzionale andava nella direzione di intravedere l’ente locale preposto alla gestione dei servizi per la salute, mentre i servizi preposti alla cura, ossia al verificarsi dell’evento morboso, continuavano ad essere gestiti dagli enti mutualistici e dagli ospedali.

LA POLITICA DELLE RIFORME

Con l’avvento dei governi di centro-sinistra degli anni ’60, l’insoddisfazione complessiva del sistema sanitario era tale da provocare comunque proposte di riforma e di riorganizzazione da parte di tutte le forze politiche, sindacali, sociali, universitarie che si collegavano agli iniziali conati di riforme iniziati negli anni ’50 e mai conclusi (5).

Infatti il quadro normativo ed organizzativo era tale da determinare una notevole dispersione e conflittualità di competenze e di attribuzioni: la presenza delle tre “sanità” separate (prevenzione, cura e riabilitazione).

ll programma economico quinquennale, varato nel 1966, e basato sul “Rapporto Saraceno” (e che si riferiva alla necessità di avviare la politica delle riforme, e dare risposte adeguate nel campo dell’organizzazione degli enti locali, la scuola, la sanità, l’assistenza, ecc.) portò il Governo dell’epoca a istituire una prima Commissione di studio sulla riforma sanitaria (la Commissione “Seppilli”, dall’ Illustre Professore che la presiedeva).

I temi che in generale furono affrontati dalla Commissione furono i seguenti:

– garanzia della tutela universalistica della salute a tutti i cittadini, a prescindere dalle condizioni di censo e di lavoro;

– riconduzione, sul territorio, orizzontalmente, di tutti gli interventi sanitari, con il superamento della frattura esistente fra la prevenzione, la cura riabilitazione;

– superamento dell’organizzazione gestionale verticale fra prevenzione, cura e riabilitazione, distribuita incongruamente fra comuni, enti mutualistici, enti ospedalieri, ministeri, ecc.;,

– inserimento degli ospedali nell’alveo territoriale e inseriti nell’unità sanitaria locale;

– individuazione di un unico organismo gestionale (unità sanitaria locale) con il compito di provvedere alla realizzazione degli interventi e dei servizi sanitari, con il superamento degli Enti mutualistici;

– riconoscimento del ruolo della .partecipazione della comunità alle scelte di politica sanitaria locale.

Una volta ricondotto sul territorio il sistema dei servizi sanitari, la domanda (e la tentazione) e cui rispondere era quella di chiedersi se era meglio e più funzionale una “municipalizzata” della salute, oppure far sì che la salute diventasse patrimonio comune di tutti, e in quanto tale rifluisse

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(5) Fra le pubblicazioni e gli studi più significativi del periodo si devono ricordare: “La sanità pubblica nella programmazione economica” di G. Berlinguer; “La politica sanitaria nei prossimi quindici anni, di AA.VV. (G: Bruni, A. Cappelli, G. Cigliana, ecc.) “I risultati della Commissione di studio sull’Unità sanitaria locale” del Prof. A. Seppilli.

nella cultura sociale e sanitaria della comunità, come propugnava con vigore il Prof. Seppilli in molteplici saggi e studi.

Fu scelta la strada del Comune, in quanto ente esponenziale degli interessi della collettività locale, fra cui quelli connessi alla salute.

La riforma ospedaliera

Nel 1968 fu emanata la legge 12.2.68, n. 132 “Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera”, che rappresentò il primo tentativo di mettere ordine al sistema ospedaliero italiano, fino ad allora caratterizzato da confuse situazioni gestionali (gli ospedali erano gestiti da Università, IPAB, Province, Comuni, Enti mutualistici, Croce Rossa, Fondazioni, ecc.), e da personale sottoposto a trattamenti normativi ed economici assolutamente disparati.

Con tale legge furono quindi istituiti gli Enti ospedalieri e tale provvedimento, se rappresentò il tentativo di razionalizzare il sistema (a tale proposito si ricorda il “libro Bianco sugli ospedali voluto dal Ministro della sanità dell’epoca, Mariotti, per denunciare una situazione oltremodo critica),dall’altro non riuscì, per la stretta dipendenza finanziaria dagli enti mutualistici, e per l’egemonia dell’ospedale sul territorio, a frenare l’espansione dei costi sanitari ospedalieri, che di norma assorbivano il 60-70% della spesa sanitaria.

La critica alla suddetta legge da parte degli studiosi si concretizzava nella constatazione che in tal modo si cominciava a riformare la sanità dal tetto, anziché dalla base; in ogni caso le conseguenze furono di avviare, attraverso i Comitati regionali per la programmazione ospedaliera, il primo concreto avvio di una programmazione sanitaria.

L’EVOLUZIONE FRA IL ’70 E IL ’78: L’ISTITUZIONE DELLE REGIONI

A fronte degli studi e delle proposte di riforma, si deve ricordare che a seguito della crescente domanda di salute esistente nel paese e le distorte risposte del sistema, il deficit mutualistico aumentava a preoccupanti livelli, con ciclici interventi finanziari (operati con improvvisi decreti legge) finalizzati a ripianare i debiti delle “mutue”, e quindi con una indiretta constatazione che ormai il sistema veniva pagato non già dagli iscritti alle “casse mutue” ma dalla collettività nazionale (6).

Pertanto il suddetto sistema sanitario, pure a fronte delle difficoltà che presentava e che erano oltremodo pesanti anche in rapporto e in termini di crescente lievitazione della spesa, si è protratto fino all’avvento delle Regioni, quando si sono cominciate concretamente a delineare diverse ipotesi organizzative sulla sanità anche alla luce delle ormai acquisite conclusioni a cui erano pervenute le commissioni di studio (Commissione Seppilli, Commissione, Valdoni, ed i primi orientamenti dei comitati regionali per la programmazione ospedaliera.

A conferma di una situazione oltremodo variegata va altresì ricordato uno studio che fu condotto dal Ministro della sanità nel 1972, da cui risultava la presenza sul territorio di molteplici strutture ambulatoriali e poliambulatoriali gestite da molteplici enti senza alcun coordinamento operativo e funzionale (enti mutualistici, comuni, province, ospedali, Croce Rossa ONMI, IPAB.

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(6) – A rendere ancora più eclatante il disagio del sistema intervenne la dolorosa vicenda dei cittadini handicappati, che, a fronte di un sistema mutualistico ingiusto, venivano ad essere penalizzati profondamente nelle modalità di assistenza, al punto che con la legge n. 118/71 furono istituiti, e direttamente gestiti dal Ministero della sanità, o in convenzione con le associazioni (AIASS,ANFASS,ecc.) , i centri di assistenza.

In effetti, quindi si .delineava una caotica rete di interventi sanitari riferiti peraltro non tanto al bisogno sanitario espresso e cui rispondere in termini di servizi, quanto piuttosto al numero degli iscritti e degli assicurati presso le varie “casse mutue”. Occorre anche sottolineare che tale situazione determinava una assoluta disparità di trattamento fra i vari regimi assicurativi, così che anche un a analisi superficiale volta a quantificare la spesa pro- capite fra gli assistiti metteva in evidenza la differenza sostanziale fra i vati istituti mutualistici (7).

Con l’avvio dell’istituto regionale, furono trasferite alle Regioni, varie competenze dello Stato in materia di sanità pubblica, e peraltro il quadro di riferimento era comunque incompleto, in presenza di enti autonomi quali quelli mutualistici e quelli ospedalieri, che continuavano ad esistere con strutture e sistemi propri.

Pur nelle ristrettezze delle competenze trasferite e dei conseguenti finanziamenti, nelle Regioni cominciò a prendere consistenza la necessità di rendere governabili gli ambiti territoriali, e di procedere quindi ad una analisi territoriale che tenesse conto della difficoltà connesse alla presenza di piccoli comuni da una parte e dal gigantismo delle aree metropolitane.

Tali considerazioni erano pertinenti non solo per ciò che concerneva i servizi sanitari, ma anche per quelli socio-assistenziali, scolastici, culturali, formativi, nonché quelli legati all’assetto del territorio, all’urbanistica, ecc.

A tale riguardo va ricordato che molte Regioni avviarono la costituzione dei comprensori, intesi come aggregazione di comuni riuniti in consorzio per la gestione dei problemi comuni; tali comprensori rappresentavano anche l’interlocutore primario con la Regione nel loro ruolo di ente intermedio per la realizzazione dell’attività di programmazione della Regione.

I suddetti comprensori furono anche individuati quali “aree di servizio” e per la gestione unitaria dei servizi sanitari, socio-assistenziali ( e anche culturali, formativi, ecc.), e in tale prospettiva i Comuni stessi furono accorpati in zone, che facevano capo a Consorzi socio-sanitari.

La formula del Consorzio rappresentò la soluzione più idonea per la gestione dei servizi sociali e sanitari di competenza delle Regioni, delle Province e dei Comuni, anche se rimanevano fuori gli interventi più corposi degli enti mutualistici ed ospedalieri.

Accanto a tale attività svolta dalle Regioni, va ricordato l’appassionato dibattito che caratterizzò la fine degli anni ’70, con avvenimenti di portata storica che hanno determinato le successive scelte operate dal legislatore per la riforma del servizio sanitario nazionale: in particolare si fa riferimento al decreto-legge 8.7.74, n. 264, convertito in legge, con modificazioni, 17.8.74, n . 386 “Conversione in legge, con modificazioni del d.l. n.264/734,recante norme per l’estinzione dei debiti degli enti mutualistici nei confronti degli enti ospedalieri, il finanziamento della spesa ospedaliera e l’avvio della riforma sanitaria”

Con tale provvedimento, nei fatti, si pose avvio alla riforma sanitaria, e, fra l’altro fu disposto:

i compiti in materia di assistenza ospedaliera degli enti anche previdenziali gestori di forme di assistenza contro le malattie, nonché delle casse mutue, anche aziendali, erano trasferiti alle Regioni;

le Regioni erano tenute ad erogare le relative prestazioni senza limiti di durata;

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(7) La disparità di trattamento e di prestazioni fra i vari enti notevole: nel 1971, secondo uno studio condotto dal sottoscritto, era tale che, ad esempio, la spesa pro-capite per l’ENPDEP era di £ 42.000, £ 31.000 per l’INAM, £ 18.000 per i CC.DD.

gli Enti mutualistici venivano sciolti e commissariati fino alla riforma sanitaria.

Nella fase convulsa che comunque precedeva la riforma sanitaria, con la legge 22.7.75,n.382 “Norme sull’ordinamento regionale e sull’organizzazione della pubblica amministrazione e il conseguente DPR n. 616/77 “Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge n. 382/75”.

Con tali provvedimenti legislativi si mise praticamente fine ad una diatriba annosa che proponeva per la sanità uno sorta di azienda municipalizzata per la gestione dei servizi sanitari, e quindi con la creazione di un ente erogatore di servizi non espressione degli enti locali, ma un organismo direttamente dipendente dalla Regione.

Il DPR n.616/77, in quella fase di affermazione piena del ruolo dei Comuni, affermò comunque due principi fondamentali:

– la titolarità piena dei Comuni nella gestione e nell’esercizio delle funzioni amministrative dei servizi sanitari e sociali non espressamente affidati allo Stato ed alle Regioni;

– l’obbligatorietà dei Comuni ad associarsi per la gestione dei servizi stessi, secondo ambiti territoriali adeguati, e tali da corrispondere all’area dei servizi sanitari, sociali e scolastici.

Veniva così ad essere esaltato il ruolo delle autonomie locali, intese quali enti esponenziali degli interessi delle collettività locali, e quindi deputati alla realizzazione degli interventi necessari al perseguimento del “benessere sanitario” della popolazione.

L’avvio delle Regioni ha peraltro determinato un diverso modo di intendere la gestione della sanità: si superava l’antistorica concezione basata sulla verticalizzazione del momento preventivo, curativo e riabilitativo, e nel contesto delle competenze attribuite alle Regioni con il DPR n. 4/1972 è stata concretamente portata avanti la realizzazione delle unità sanitarie locali, nell’ambito di quella che negli anni ’70 fu definita la ”politica territoriale dei servizi sanitari e sociali”.

Con le prime leggi regionali istitutive delle unità sanitarie locali o delle unità locali socio-sanitarie (che hanno interessato le Regioni Basilicata, Emilia Romagna, Friuli V.G. Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Toscana, Valle d’Aosta, Umbria, Veneto) venne ad essere evidenziato uno scenario operativo che in linea con gli orientamenti espressi a livello politico, universitario, sindacale, sociale e culturale:

– attribuzione agli enti locali consorziati nell’unità sanitarie locale dei servizi sociali e sanitari delle deleghe per l’esercizio delle funzioni sanitarie e socio-assistenziali trasferite dallo Stato alle Regioni;

– riorganizzazione del territorio in ambiti territoriali adeguati;

– programmazione territoriale degli interventi sanitari e sociali:

– realizzazione degli interventi a livello distrettuale;

– partecipazione dei cittadini e degli utenti e delle forze sociali alla programmazione, organizzazione e gestione dei servizi, nonché alla verifica e al controllo degli interventi.

E’ da notare che tale sforzo concettuale e normativo veniva portato avanti pur in presenza degli Enti mutualistici, e quindi lo scontro era fra chi voleva e perseguiva la “cultura” degli Enti, con tutte le conseguenze che ne derivavano, in termini di interventi e di democrazia partecipativa, e chi invece voleva perseguire e pervenire ad una nuova “cultura dei servizi”, basata sulla programmazione, sul decentramento, sulla organizzazione orizzontale degli interventi, sull’unificazione dei servizi e sulla partecipazione democratica.

Tale impostazione è quella che ha contraddistinto il primo “pezzo” di storia regionale dei servizi sanitarie sociali.

1978: LA PRIMA RIFORMA

La legge istitutiva del servizio sanitario nazionale (23 dicembre 1978, n. 833) si venne a collocare quindi in una situazione già preparata ed idonea ad accogliere la nuova struttura (Unità Sanitaria Locale) che veniva a sostituire interamente il precedente sistema sanitario.

La suddetta legge n. 833/78 ha determinato il superamento di una condizione di frammentarietà, di sperequazione, di profonde discriminazioni di trattamento e di offerta nel campo della sanità, con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e con il superamento del vecchio ed antiquato sistema, basato sulla divisione esasperata di competenze, e su una miriade di enti mutualistici che si rivolgevano a loro specifiche “fette” di assistiti.

In estrema sintesi, secondo quelli che furono i principi ispiratori e gli orientamenti politici, la legge era fondata, fra l’altro, sui seguenti presupposti:

– universalità della platea degli utenti, non più discriminati in rapporto al censo, alla condizione di lavoro, alle condizioni economico-sociali;

– articolazione delle attività sanitarie basate sulla prevenzione, sulla cura e sulla riabilitazione, funzionalmente organizzate nelle unità sanitarie locali;

– gestione delle attività sanitarie assicurata dalle unità sanitarie locali, intese quali strumenti operativi dei comuni, singoli o associati, considerati quali titolari delle funzioni e delle competenze sanitarie;

– riconoscimento della partecipazione dei cittadini e della gestione democratica della salute, attraverso l’Assemblea e il Comitato di gestione della unità sanitaria locale;

– primato della conduzione “politica” della salute, attraverso la figura del Presidente del Comitato di gestione e degli stessi membri del comitato di gestione, di estrazione partitica e rapportati al “peso” rappresentativo degli stessi partiti sul territorio.

– istituzione del Fondo sanitario nazionale, per spese in conto capitale e in conto gestione, in rapporto alla spesa storica accertata, e non in base al bisogno sanitario espresso;

– non necessaria osservanza dell’equilibrio finanziario, prevedendosi i ripiani delle situazioni debitorie delle unità sanitarie locali;

– esclusività delle prestazioni e dei servizi del SSN, e ruolo del privato convenzionato in base ai vincoli della programmazione regionale;

– ruolo regionale del personale sanitario, sulla base di quanto indicato dal DPR n. 761/79;

– programmazione della sanità articolata su due livelli, nazionale e regionale.

Le conseguenze più immediate furono:

– la soppressione degli enti mutualistici;

– il riconoscimento della titolarità piena dei Comuni per la gestione della sanità nei momenti fondamentali della prevenzione, della cura e della riabilitazione;

– la territorialità degli interventi;

– l’integrazione fra i servizi sanitari e i servizi sociali;

– la partecipazione dei cittadini e degli utenti alla realizzazione del servizio;

– la programmazione, intesa come metodo e strumento politico-operativo volto a determinare il riequilibrio territoriale degli interventi e dei servizi in rapporto ai bisogni rappresentati dall’utenza.

Sul piano istituzionale, il quadro di riferimento era il seguente:

– il Ministero della sanità, preposto essenzialmente alla programmazione sanitaria, alla attuazione del servizio sanitario nazionale, definizione delle politiche del farmaco, nonché alla funzione di varie competenze in materia di medicina sociale ospedali, alimentazione e servizi veterinari;

– le Regioni, a seguito della legge istitutiva del SSN con un ruolo essenziale di legislazione e di programmazione, rivolta alle Unità sanitarie locali;

– i Comuni, nel loro ruolo riconosciuto di enti esponenziali degli interessi delle collettività locali (fra i quali gli interessi relativi alla salute), con funzione di programmazione locale e gestione della sanità (e in vari casi anche dei servizi socio-assistenziali) attraverso le Unità sanitarie locali, da intendere quali “strumenti operativi” dei Comuni, singoli o associati (obbligatoriamente) per la concreta realizzazione dei servizi e degli interventi.

Per la realizzazione degli obiettivi previsti dalla legge di riforma, pertanto, il Comune singolo o associato diventava il depositario e il titolare unico per la gestione della salute sul territorio.

Peraltro, a fronte della realtà comunale (il 75% dei Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti e solo 80 comuni in grado di costituire un rapporto ottimale popolazione-servizi), si confermò la necessità di individuare nell’Associazione obbligatoria dei Comuni lo strumento per la gestione dei servizi, attraverso l’Unità sanitaria Locale.

Pertanto, con la prima riforma, come sopra illustrato, le Unità Sanitarie Locali sono state individuate quali strumento operativo dei Comuni, singoli o associati, per la gestione della salute.

Le USL, strutture operative dei Comuni (titolari della competenza), si basavano sui seguenti organi:

– assemblea dei comuni associati (obbligatoriamente);

– comitato di gestione;

– presidente.

Il controllo veniva esercitato dal Comitato regionale di controllo sugli atti degli enti locali.

Le criticità

Occorre mettere in evidenza che, secondo una prassi che successivamente è stata una costante nel rapporto Stato-Regioni, in effetti la prima legge di riforma da una parte ha posto l’urgenza e il primato della sanità rispetto all’assistenza, e quindi l’interruzione del processo di integrazione socio-sanitaria e delle politiche territoriali dei servizi sociali (“un territorio, un governo”), e dall’altra ha imposto alle Regioni il proprio “disegno riformatore”, che, anche in contrapposizione a quanto indicato dall’art. 25 del DPR 616/77 (che auspicava una gestione unitaria dei servizi socio-sanitari e scolastici), ha unicamente scelto la “sanitarizazione” del territorio, e non già il coordinamento e l’integrazione fra i servizi rivolti alla persona e alla comunità (secondo la giusta impostazione indicata nel DPR 616/77, successivamente ripresa dal d. lgs. n. 112/98 e dalla legge n. 328/00).

In tale periodo, peraltro, il primato della “politica” anche nella sanità ha determinato l’egemonia del “funzionariato” e “clientelismo” politico rispetto alla preparazione ed alla professionalità.

Nel corso della complessa vicenda legata alla realizzazione della riforma sanitaria, nel corso del primo decennio (anni ’80) si sono venuti a determinare, secondo un percorso che potrebbe essere definito per “prove ed errori”, vari aggiustamenti al sistema sanitario.

Infatti, a seguito dell’esperienza venutasi a determinare nella prima fase della riforma, con gravissimi problemi legati al lievitare incontrollato della spesa, nonché ad una sostanziale non piena rispondenza dei Comuni ai compiti loro affidati in materia di sanità, si sono via definite varie modifiche, caratterizzate dall’urgenza e dal tentativo di contenere i costi e di ridimensionare il personale.

I primi atti di modifica

Tenuto conto delle modifiche intervenute, si riporta di seguito un elenco sommario dei provvedimenti più importanti, che se hanno ormai il sapore di una storia superata, rendono ben evidente lo stato di difficoltà e di crisi del sistema.

Infatti, a fronte di una prima legge organica di riforma intervenuta nel quadro di un riconoscimento pieno del Parlamento, nella sua funzione di legislazione, gli atti successivi sono stati prevalentemente caratterizzati da decretazione di urgenza (decreti legge), oppure da atti monocratici (DPCM) che hanno avviato un lento processo volto a ridurre il ruolo del Parlamento in ordine allo svolgimento delle politiche sanitarie.

d.l. 30.4.81,n.118 “Misure urgenti in materia di assistenza sanitaria”;

d.l. 19.5.81,n. 193:”Misure necessarie per il ripiano dei bilanci delle usl e ripianamento degli enti ospedalieri”;

d. l. 28.5.81, n. 248 “ Misure per contenere il disavanzo di gestione delle usl”;

d.l. 28.5.81,n. 250:”Partecipazione degli assistiti alla spesa per l’assistenza sanitaria”;

d.l.28.5.81,n. 252 “Prestazioni di cura erogate dal SSN”;

d.l. 29.7.81, n. 400 “Blocco degli organici delle usl”;

DPCM 8.8.85:”Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni in materia di attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali”;

Legge 23.10.85,n.595:”Norme per la programmazione sanitaria e per il piano sanitario triennale 1986-88”;

1986-1991: LE “MINIRIFORME”

Già dopo otto anni dalla prima riforma sanitaria, con la legge 15 gennaio 1986 n. 4 si pose mano ad un ad una modificazione dell’assetto istituzionale delle USL.

Veniva infatti disposto che in attesa della riforma istituzionale delle unità sanitarie locali, per gli organi delle stesse, veniva disposto quanto segue:

a) l’assemblea generale è soppressa. Le relative competenze sono svolte dal consiglio comunale o dall’assemblea generale della comunità montana o dall’ assemblea dell’associazione intercomunale costituita secondo le procedure previste dall’ articolo 25 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, in relazione al’ ambito territoriale di ciascuna unita' sanitaria locale.

b) il comitato di gestione composto dal presidente e da quattro o sei membri, sulla base di quanto stabilito dalla regione secondo le dimensioni dell’ unità sanitaria locale, eletti, a maggioranza, con separate votazioni, dal consiglio comunale o dall’ assemblea della associazione intercomunale, anche fuori del proprio seno, tra cittadini aventi esperienza di amministrazione e direzione, documentata da un curriculum, che deve, essere depositato, a cura di uno o più gruppi presenti nel consiglio comunale o nella assemblea della associazione intercomunale, cinque giorni prima della elezione.

Con l’inizio degli anni ’90 si è posta mano ad una iniziale e profonda modificazione dell’ assetto istituzionale del Servizio Sanitario Nazionale, con il deciso orientamento ad un suo superamento, con la regia di Ministri appartenenti a forze politiche (PLI) che avevano votato “no” al tempo della prima riforma, e la stessa semplice elencazione delle norme legislative adottate rendono evidente il cambiamento di clima nella politica sanitaria:

d.l. 24.7.90, n.200 “Sospensione delle procedure per il rinnovo egli organi di gestione delle usl;

legge 4.4.91, n.111 “Conversione in legge, con modificazioni, del d.l. n. 35/91,recante norme sulla gestione transitoria delle usl”;

d.l. 30.6.87, n. 257:”Disposizioni urgenti in materia sanitaria”;

d.l. 8.2.88, n. 26: “Misure urgenti per le dotazioni organiche del personale degli ospedali e per la razionalizzazione della spesa sanitaria”;

d. l. 25.3.89, n.11:”Misure urgenti per la riorganizzazione del SSN”;

d.l. 25.11.89, n.382:”Disposizioni urgenti per la partecipazione alla spesa sanitaria e sul ripiano dei disavanzi delle usl”.

Con il d.l. 6.2.91, n. 35, convertito nella legge 4.4.91, n. 111 recante “norme sulla gestione transitorio delle Unità sanitarie locali”, si completò quindi la prima fase di superamento dell’assetto istituzionale della prima riforma.

Gli aspetti più importanti erano:

L’assemblea generale veniva soppressa; i membri della nuova assemblea erano scelti fra i consiglieri comunali;

il Comitato di gestione era composto dal presidente e da quattro o sei membri eletti a maggioranza e con separate votazioni dall’assemblea dell’associazione intercomunale.

i comitati di gestione restavano in carica fino alla nomina dell’amministratore straordinario;

in ogni USL veniva istituito un Comitato dei garanti, che avrebbe eletto nel proprio seno un presidente;

in ogni USL veniva nominato un amministratore straordinario in attesa del riordinamento del servizio sanitario nazionale.

1992: LA SECONDA RIFORMA

Pertanto, una volta acclarata l’esperienza precedente in ordine alla gestione della salute attraverso i comitati di gestione, si delegò il Governo con la legge 23.10.92,n.421, a razionalizzare e a rivedere le discipline in materia, fra l’altro, di sanità (oltre che di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) (8).

Il ricorso ai decreti delegati, comunque, non è stato peregrino, essendo tale soluzione portata avanti con notevole accentuazione dai Governi successivi: infatti, sia per ciò che concerne la riforma dello Stato, sia per altri ambiti di intervento, fra cui la sanità, il Governo ha emanato propri decreti legislativi, in base ai criteri e alle direttive indicate nelle leggi di delega.

In base a tale procedura, che nei fatti sottraeva al Parlamento una piena titolarità a legiferare in materia (e che comunque sarà successivamente ripresa quale iter normale), fu emanato il decreto n. 502/92 (e a completamento il d. lgs. n. 517/93), che, in sintesi, introduceva, fra gli altri, i seguenti principi ispiratori:

Osservanza, nel campo della sanità, dei principi del mercato, ma dentro le regole fissate dallo Stato;

* Aziendalizzazione della salute, attraverso la costituzione delle aziende sanitarie locali,

dipendenti dalla Regione e dotate di propria autonomia gestionale, tecnica, patrimoniale e organizzativa;

Limitazione della partecipazione dei cittadini, sentiti in sede di consultazione delle fasi di programmazione, e verifica dei risultati, con il riconoscimento del maggior ruolo delle organizzazioni di volontariato e di tutela dei diritti;

Affermazione della carta dei servizi sanitari, centrata sul rapporto utente-struttura sanitaria;

Riconoscimento del principio della managerialità nella conduzione dell’azienda sanitaria locale, con la scomparsa del comitato di gestione e del Comitato di gestione;

Riduzione del ruolo dei Comuni, espresso attraverso la Conferenza dei Sindaci, che si esprimono con pareri sul bilancio e sulla verifica delle attività;

Definizione preventiva dell’entità del Fondo sanitario nazionale, sulla base della quota capitaria;

Individuazione preliminare delle risorse finanziarie, e affermazione del principio del rimborso basato sulla prestazione effettivamente resa;

Principio della parità pubblico-privato e istituzione dell’accreditamento, in sostituzione delle convenzioni;

_______________________________________________________________________________

(8) A tale proposito si deve notare che a fronte di un iniziale ruolo del Parlamento a gestire la complessa vicenda della sanità, con una propria capacità di legiferare e di indirizzare, propria dello spirito e degli orientamenti politico-istituzionali degli anni ‘70, già con la prima legge n. 421/92, si è determinato un orientamento completamente innovativo: il Parlamento ha delegato il Governo a provvedere a riformare la “prima” sanità, sulla base di criteri e direttive che di per sé stesse hanno costituito una profonda innovazione sul precedente sistema.

Possibilità di istituire la mutualità integrativa, a cui viene dato maggior rilievo che nel passato.

In base a tali disposizioni, che hanno peraltro tenuto conto sia dell’esperienza accumulata con il precedente sistema, sia delle conseguenze derivanti dalla legge n.142/90 sull’ordinamento delle autonomie locali, le linee organizzative prevedevano una profonda innovazione nel sistema sanitario, passando da un criterio di rappresentatività e gestione politica dei bisogni, ad un criterio legato alla managerialità.

Sul piano istituzionale, mentre al Ministero della sanità viene confermato il ruolo di programmazione e di gestione politica della sanità, per ciò che concerne gli altri livelli istituzionali, secondo l’analisi della legislazione regionale, il quadro di riferimento è il seguente:

a) le Regioni svolgono una specifica attività di indirizzo e coordinamento, nonché verifica delle attività svolte dalle aziende sanitarie locali per la realizzazione degli interventi e dei servizi sanitari e degli altri servizi connessi.

La predetta attività di indirizzo e coordinamento viene svolta attraverso l’emanazione di direttive specifiche, e attiene alla definizione di criteri e di standards di servizi ed interventi.

La Regione, inoltre svolge una eminente attività di programmazione che è di durata triennale e definisce, in genere:

– l’individuazione di una scala di priorità in ordine alla quale attuare gli interventi e i servizi;

– la quantificazione delle risorse disponibili nel periodo di durata del piano;

– la definizione dei rapporti con le strutture private;

– l’individuazione dei progetti-obiettivo.

Per ciò che concerne il finanziamento, la Regione, in genere, determina le modalità di erogazione e di articolazione delle spese, con riferimento alla razionale utilizzazione delle risorse.

b) Alla provincia è riconosciuto il ruolo di approvazione dei programmi di localizzazione dei servizi sanitari. Inoltre, nell’ambito delle attività di programmazione, alcune Regioni hanno puntualizzato il ruolo della provincia in merito alla individuazione degli ambiti territoriali delle aziende sanitarie, nonché la predisposizione di proposte, in ordine, per quanto di competenza, alla individuazione dei distretti sanitari e alla integrazione dei servizi sanitari e socio-sanitari.

c) Le Aziende sanitarie locali costituiscono la innovazione più importante introdotta dal decr. leg.vo n. 502/92.Mediante l’aziendalizzazione della salute, le Aziende sono dotate di personalità giuridica pubblica, direttamente dipendenti dalla Regione e sono dotate di propria autonomia gestionale tecnica, patrimoniale ed organizzativa, e sostituiscono le ULS, che invece erano strumenti operativi dei Comuni., titolari della gestione della salute.

Le Aziende sono altresì preposte alla attività programmatoria locale, sulla base della programmazione regionale, mediante pianificazione attuativa specifica, di durata annuale.

d) Le Aziende Ospedaliere, enti strumentali della Regione, sono dotate di personalità giuridica pubblica, di autonomie organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica.

e) Il Direttore generale dell’Azienda sanitaria o dell’Azienda ospedaliera, rappresentano l’organo monocratico amministrativo e gestionale che sostituisce il Presidente della USL, e il concetto di collegialità nella gestione della salute.

f) Il Comune, non viene più inteso quale titolare di competenze gestionali ed amministrative (sia pure attraverso lo strumento operativo della Unità sanitaria locale); è riconosciuto nella sua propria competenza fondamentale di esprimere il bisogno socio-sanitario della comunità.

Tale competenza, peraltro sancita negli Statuti comunali a seguito della legge n.142/90, pone il Comune nella condizione di partecipare alla Conferenza dei Sindaci, che è intesa quale sede di espressione di pareri in ordine alla programmazione sanitaria locale e al bilancio dell’azienda.

g) Il servizio privato viene riconosciuto in rapporto paritario con il servizio pubblico, e la convenzione viene sostituita dall’accreditamento, in virtù del quale l’utente del SSN può rivolgersi direttamente al privato, secondo una propria scelta..

Complessivamente, e sintetizzando per i principali aspetti le innovazioni portate dal decreto legislativo n.502/92, e il d.lgs. n. 517/93, sul piano dell’assetto istituzionale, queste sono le seguenti:

– Aziendalizzazione della salute, attraverso la costituzione delle aziende sanitarie locali, dipendenti dalla Regione, e dotate di propria autonomia gestionale, tecnica, patrimoniale e organizzativa;

– Riconoscimento del principio della managerialità nella conduzione dell’azienda sanitaria locale, con la scomparsa del presidente del comitato di gestione, del Comitato di gestione e dell’assemblea della usl;

– Riduzione del ruolo dei Comuni, espresso attraverso la conferenza dei sindaci che si esprimono con pareri sulla programmazione, sul bilancio e sulla verifica delle attività;

– Riconoscimento della parità pubblico-privato e istituzione dell’accreditamento, in sostituzione delle convenzioni.

1999: LA TERZA RIFORMA

Come è noto, uno degli impegni più qualificanti del Governo allora in carica è stato quello di procedere ad una “rivisitazione” del decreto legislativo n.502/92, in conseguenza dell’accordo sul Welfare sottoscritto con le Organizzazioni sindacali nel novembre 1997 e che si riferiva, oltre che alla sanità, anche alla riforma dell’assistenza e al riordino dei trasferimenti monetari secondo una linea di equità: il riccometro e il sanitometro.

Da tale accordo è scaturito il disegno di legge n.4230/97: Delega al Governo per la razionalizzazione del servizio sanitario nazionale.

Tale provvedimento, nel contesto di una riflessione complessiva sull’andamento dei Sistema sanitario, ha tenuto conto di quanto conseguito, sul piano istituzionale, gestionale ed operativo, e quindi si è posto l’obiettivo di ridisegnare complessivamente tutto il sistema.

L’intendimento di fondo è stato quello di definire precisi criteri a cui il Governo si sarebbe dovuto attenere nell’emanare i decreti delegati, e invero i suddetti criteri abbracciano tutti gli aspetti più cruciali della sanità, e che si collegano anche all’avviato processo di riforma della pubblica amministrazione con:

  • la legge 15.3.97, n. 59 “ Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa”;

  • La Legge 15.5.97, n. 127 “ Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo”;

  • La legge n.127/97 e la legge 13.5.99,n.133 “Disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale”.

Nel contesto del processo di riordino così avviato, e concluso con il decreto legislativo n. 229/99, innovazioni profonde concernono sia l’assetto istituzionale, sia le competenze attribuite ai vari organismi che sono interessati al nuovo sistema sanitario.

Sulla base della legge 30.11.98, n. 419 “Delega al Governo per la razionalizzazione del SSN e per l’adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del SSN. Modifiche al d. lgs.n. 502/92”, a conclusione dell’iter procedurale del d.d.l. n. 4230/97, si sono pertanto individuato specifiche “aree” di intervento normativo, e che in estrema sintesi possono così elencarsi:

* completamento del processo di aziendalizzazione e stato giuridico del personale;

* integrazione socio-sanitaria;

* rapporti con l’Università;

* rapporti con gli Istituti scientifici di ricovero e cura;

* coinvolgimento dei Comuni nel processo di programmazione e verifica;

* puntualizzazione dei livelli uniformi di assistenza;

* ruolo del medico di medicina generale;

* forme integrative di assistenza;

* accreditamento ed accordi contrattuali;

* ruolo del privato sociale;

* ridefinizione dei sistema di partecipazione di spesa;

* verifica e revisione della qualità; controlli;

* dipartimentalizzazione;

* finanziamento delle aziende sanitarie e dei soggetti erogatori;

* collaborazione dei medici specialisti ambulatoriali interni.

Pertanto, già la legge di delega, nel suo complesso, rappresenta un poderoso quadro di riferimento, e, pertanto su tali riferimenti oltremodo complessi ed articolati, è scaturito il decreto legislativo 19.6.99, n. 229 “Norme per la razionalizzazione del SSN, a norma dell’art. 1 della L. 419/98”.

I principi ispiratori

In sede di commento al d. lgs. n. 229/97, si illustrano sinteticamente quelli che si ritiene siano gli aspetti più importanti.

Conferma dei principi ispiratori della legge n. 833/78 con specifiche puntualizzazioni: universalità; rispetto della dignità e della persona; rispondenza al bisogno di salute; equità; qualità; appropriatezza; essenzialità delle prestazioni; economicità nell’impiego delle risorse;

Rafforzamento del processo di aziendalizzazione della salute: le ausl sono rette da un atto aziendale privato e regolate dal codice civile, con propria personalità giuridica ed autonomia imprenditoriale;

rafforzamento della partecipazione dei cittadini, nella attività di programmazione, valutazione e controllo;

Introduzione del principio dell’integrazione fra i servizi sociali e i servizi sanitari;

introduzione della carta dei servizi socio-sanitari, ai fini dell’integrazione dei servizi sociali e sanitari;

qualificazione manageriale del direttore generale attraverso appositi corsi;

Rafforzamento del ruolo dei comuni in ordine alla programmazione delle attività sanitarie, a livello regionale (con la conferenza permanente sanitaria e socio-sanitaria) e locale (Comitato dei sindaci di distretto),nonché di verifica delle stesse attività, anche nei confronti dell’operato del direttore generale;

Introduzione del federalismo in materia di sanità, e dell’osservanza del patto di stabilità,

Potere sostituivo del Governo in caso di inadempienze regionali (secondo quanto previsto dalla legge n. 59/97;

Contestuale definizione delle risorse con il Ministero del tesoro;

Meccanismi di retribuzione basati su una migliore individuazione delle prestazioni, in base a programmi e a tariffe predefinite;

Conferma della parità pubblico-privato, ma nel contesto della programmazione regionale e locale, del fabbisogno e della localizzazione;

Definizione conseguente di procedure comuni per l’autorizzazione, l’accreditamento e gli accordi contrattuali;

Individuazione e rafforzamento del distretto inteso quale sede privilegiata per l’integrazione socio-sanitaria, dotato di proprio budget e programma, e con un proprio dirigente;

Fondi integrativi ulteriormente precisati e collocati nel contesto del servizio sanitario nazionale, con la peculiare limitazione ad essere aggiuntivi e non sostituivi delle prestazioni del SSN.

L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE DOPO LE TRE RIFORME DELLA SANITA’

A conclusione del presente studio si ritiene opportuno rappresentare, per gli aspetti ritenuti più importanti, i punti essenziali che sono stati tenuti presenti nella traduzione normativa dei tre “sistemi”, secondo quanto di seguito specificato.

La legge n. 833 /78

Articolazione delle attività sanitarie basate sulla prevenzione, sulla cura e sulla riabilitazione, funzionalmente organizzate nelle unità sanitarie locali;

Gestione delle attività sanitarie assicurata dalle unità sanitarie locali, intese quali strumenti operativi dei comuni, singoli o associati, considerati quali titolari delle funzioni e delle competenze sanitarie;

Riconoscimento della partecipazione dei cittadini e della gestione democratica della salute, attraverso l’Assemblea e il Comitato di gestione della usl;

Primato della conduzione “politica” della salute, attraverso la figura del Presidente del Comitato di gestione della usl, eletto in sede assembleare

Istituzione del Fondo sanitario nazionale, per spese in conto capitale e in conto gestione, in rapporto alla spesa storica accertata e non in base al bisogno sanitario espresso;

Non necessaria osservanza dell’equilibrio finanziario, prevedendosi i ripiani delle situazioni debitorie delle usl;

Esclusività delle prestazioni e dei servizi del SSN, e ruolo del privato convenzionato in base ai vincoli della programmazione regionale

Ruolo regionale del personale sanitario, sulla base di quanto inizialmente indicato dal DPR n. 761/79;

Programmazione della sanità articolata su due livelli, nazionale e regionale.

Il Decreto legislativo n. 502/92 e successive modificazioni

Osservanza dei principi del mercato anche nel pubblico servizio, ma dentro le regole fissate dallo Stato;

Aziendalizzazione della salute, attraverso la costituzione delle asl, dipendente dalla regione e dotata di propria autonomia gestionale, tecnica, patrimoniale ed organizzativa;

Limitazione della partecipazione dei cittadini, che sono sentiti in sede di consultazione delle fasi di programmazione, e verifica dei risultati, con il riconoscimento di maggior ruolo alle organizzazioni di volontariato e di tutela dei diritti;

Affermazione della carta dei servizi sanitari, centrata sul rapporto utente-struttura sanitaria;

Riconoscimento del principio della managerialità nella conduzione dell’asl, con scomparsa del comitato di gestione e del presidente della usl, e quindi della conduzione politica della salute;

Definizione preventiva dell’entità del Fondo sanitario nazionale, sulla base della quota capitaria;

Individuazione preliminare delle risorse finanziarie, e affermazione del principio del rimborso basato sulla prestazione effettivamente resa;

Principio della parità pubblico-privato e istituzione dell’accreditamento in sostituzione delle convenzioni;

Obbligo della distrettualizzazione del servizio;

Possibilità di istituire la mutualità integrativa.

Il Decreto legislativo 19.6.99,n.229 recante” Norme per la razionalizzazione del SSN”

Conferma dei i principi ispiratori della legge n. 833/78, con varie puntualizzazioni: universalità; rispetto della dignità e della persona; rispondenza al bisogno di salute; equità; qualità; appropriatezza; essenzialità delle prestazioni; economicità nell’impiego delle risorse;

Rafforzamento del processo di aziendalizzazione della salute: le ausl sono rette da un atto aziendale privato e regolate dal codice civile, con propria personalità giuridica e autonomia imprenditoriale;

Rafforzamento della partecipazione dei cittadini, nella attività di programmazione, valutazione e controllo a tutti i livelli;

Introduzione della carta dei servizi socio-sanitari, ai fini dell’integrazione dei servizi sociali e sanitari;

Qualificazione manageriale del direttore generale attraverso appositi corsi;

Rafforzamento del ruolo dei comuni in ordine alla programmazione delle attività sanitarie, a livello regionale (con la conferenza permanente sanitaria e socio-sanitaria) e locale (Comitato dei sindaci di distretto), nonché di verifica delle stesse attività, anche nei confronti dell’operato del direttore generale;

Introduzione del federalismo in materia di sanità e dell’osservanza del patto di stabilità;

contestuale definizione delle risorse con il ministero del tesoro;

Meccanismi di retribuzione basati su una migliore individuazione delle prestazioni in base a programmi e a tariffe predefinite;

Conferma della parità pubblico-privato, ma nel contesto della programmazione regionale e locale, del fabbisogno e della localizzazione;.

Procedure comuni per l’autorizzazione, l’accreditamento e accordi contrattuali;

Individuazione e rafforzamento del distretto inteso quale sede privilegiata per l’integrazione socio-sanitaria, dotato di proprio budget e programma, e con un proprio dirigente;

Fondi integrativi maggiormente precisati e collocati nel contesto del SSN. con la peculiare limitazione di essere aggiuntivi e non sostitutivi delle prestazioni del SSN.

RIFLESSIONI SULLA CONDIZIONE ATTUALE DEL SISTEMA SANITARIO

A distanza di circa cinquantatré anni da quando le Regioni (a seguito dei DPR n. 4 e n. 9/1971 che hanno trasferito alle Regioni le funzioni in materia di santà ed assistenza) anticipando la prima riforma sanitaria, hanno costruito il sistema socio-sanitario italiano basato sulla politica territoriale dei servizi sanitari e sociali, con il riconoscimento del comune singolo o associato in forma consortile, quale Istituzione locale preposta, in quanto più prossima ai bisogni della popolazione e sua espressione democratica, a conferma delle stesse scelte di strategia politica, secondo il disegno ideale portato avanti dal Prof: Alessandro Seppilli – ove veniva affermato il principio della “comunità competente” (il Comune) nella promozione e nella costruzione del “benessere sanitario” della popolazione, inteso quale valore comune e collettivo da perseguire, la realtà oggi rappresentata è caratterizzata da un deciso sbilanciamento verso surrettizie forme di sottrazione alle comunità locali delle loro competenze in materia di sanità.

Il processo di aziendalizzazione ormai dura da oltre trentatré anni, e gli stessi atti aziendali, che dovrebbero essere la “carta costituzionale locale della salute”, sono oggetto di vari rifacimenti ed aggiornamenti che in ogni caso introducono elementi di programmazione e gestione volti a limitare il ruolo delle comunità locali, orientandosi verso l’introduzione di un terzo interlocutore, rappresentato dalle associazioni di utenti, che dialogano direttamente (attraverso i forum, audit, ecc) con la ausl.

Le tendenze alla privatizzazione è costantemente presente, così che gli IRCCS sono stati trasformati in fondazioni nel 2003 dal governo dell’epoca (con i noti risvolti penali).

L’accreditamento porta a una situazione di difficile gestione e rapporto con il servizio pubblico, ed in un quadro di competizione e non già di integrazione.

Con la legge 3 agosto 2007, n. 120 “Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria, seguita Legge 08 novembre 2012 , n. 189, si è determinato il rafforzamento del ruolo privato in ambito pubblico.

In effetti si sta portando avanti un disegno che prefigura tre distinte sanità:

– la sanità a cui hanno diritto gli esenti dal pagamento dei ticket, caratterizzata dalle liste di attesa e dalla complessiva insoddisfacente risposta alla domanda di salute,

– la sanità riferita alla popolazione che può accedere alla sanità pubblica a pagamento e quindi con maggiori facilitazioni di accesso,

– la sanità privata che è orientata alla offerta di servizi esclusivi e di eccellenza, a cui accedono coloro che se la possono permettere.

Inoltre, in assenza di una effettiva uniformità della applicazione dei LEA sull’intero territorio nazionale, ed a fronte di peculiari scelte operate dalle Regioni più avvedute, con una offerta di servizi assolutamente competitiva e qualificata, si assiste alla formazione di “correnti di ricovero” e alla richiesta di prestazioni extraregione che promuovono la mobilità sanitaria, con notevoli aggravi per le regioni in condizioni di passività finanziaria.

Si assiste quindi a ventuno sistemi sanitari, ciascuno per Regione, con proprie caratteristiche e tipologie di offerta, che ben contrastano con gli articolo 2, 3, 32 e 97 della Costituzione.

La recente legge 26 giugno 2024, n. 86, “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” avrà gravi conseguenze sul servizio sanitario nazionale, inteso nella sua vocazione universalistica, e potrà determinare ulteriori gravissime disparità di trattamento (art 2, 3, 32, 97 della Costituzione) non solo fra i cittadini in relazione alla loro residenza regionale, ma anche nei confronti degli stessi professionisti ed operatori sanitari, per i quali il riferimento contrattuale non è più al livello nazionale, ma regionale, con conseguente impoverimento di personale nelle Regioni più povere, perché il personale stesso sarà attratto verso le Regioni ricche che offrono migliori condizioni contrattuali.

In effetti si ritornerà al vecchio sistema delle mutue degli anni ’70, in cui gli iscritti alle casse più ricche (INPGI, ENPDEP) ottenevano benefici e servizi più vantaggiosi rispetto a quelle povere (INAM, INADEL; CC.DD, ecc., come accennato in una nota precedente. In effetti si prospetta il medio evo della sanità, distinguendo, come già sottolineato, fra sanità d’eccellenza (gestita prevalentemente dai privati, a cui ricorrono gli stessi politici danarosi), sanità pubblica (gestita da asl e privati accreditati),e sanità povera, destinata a cittadini in condizioni di fragilità e di impossibilità di accesso al sistema privato, che formano lunghissime liste di attesa..

L’ esperienza tristissima della pandemia COVID-19 ha peraltro messo in evidenza che regioni ricche, avendo abbandonato la medicina territoriale per la medicina d’eccellenza (in altri termini, abbandonato la medicina delle cause per la medicina degli effetti (che produce più profitti, come sosteneva il prof. Severino Delogu), hanno subito più danni e morti, proprio per la mancanza di investimenti nella prevenzione e nell’educazione sanitaria, secondo un antico concetto che in sanità occorre investire sulle cause, così si risparmia sugli effetti che comportano aggravio di spesa e di deficit sanitario.

In tale contesto assume rilievo fondamentale la ri-definizione del LEA, e relativo finanziamento, che in ogni caso rappresentano la base di riferimento per l’esercizio da parte di ogni cittadino del proprio inalienabile e non negoziabile diritto alla salute (art. 32 della Costituzione).

È peraltro compito dello Stato definire il finanziamento necessario, sottolineando che secondo lo studio della Fondazione GIMBE crolla il rapporto spesa sanitaria/Pil: dal 6,6% nel 2023 al 6,2% nel 2024 al 6,1% nel 2026. Nel triennio 2024-2026 la spesa sanitaria aumenta solo dell’1,1%.

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