Sono passati quasi 80 giorni da quando Piergiorgo Welby ha scritto e lanciato il suo estremo grido. Non solo un urlo di dolore, ma una analisi meditata, precisa e razionale che ci ha consegnato facendola passare attraverso il suo corpo

Sono passati quasi 80 giorni da quando Piergiorgo Welby ha scritto e lanciato il suo estremo grido. Non solo un urlo di dolore, ma una analisi meditata, precisa e razionale che ci ha consegnato facendola passare attraverso il suo corpo.

La domanda era rivolta alla politica. A chi avrebbe il potere di decidere in una situazione in cui sono in gioco perlomeno tre principi:
quello dell’ INDIVIDUO,  a cui il destino e la biologia ha affidato il compito di vivere il suo ciclo esistenziale;
quello dello STATO, che deve stabilire regole, criteri, procedure che hanno un valore sovra-individuale e che, in questo caso, attraversano quei confini instabili che stanno fra il diritto e la medicina;
quello ETICO, governato dalle religioni e dai loro interpreti.
Tre principi: la persona, lo stato e “dio”.
Sono passati quasi 80 giorni. Ma Piergio Welby è ammalato da quarant’anni. E solo in questi mesi la sua SOFFERENZA INDIVIDUALE, soggettivamente percepita, ha raggiunto la soglia della insopportabilità. Tanto da dovere essere comunicata con tanta forza.
Osservo che in questi mesi a “parlare” è stata una oggettiva alleanza fra la politica e “dio”. Del tutto trasversale fra i due schieramenti del sistema politico italiano. L’aver nominato la parola “eutanasia” invece che , con più forza, “consenso informato alle cure” e “accanimento terapeutico”,  ha bloccato il processo decisionale. E ha impedito quello che la persona Piergiorgio Welby, in piena coscienza e capacità di intendere ma non di agire, chiede per sè: di potere chiudere il suo ciclo di vita senza ulteriori sofferenze inferte dalla (in altre situazioni vantaggiosa) potenza della tecnica e della medicina.
Il principio etico e quello dello stato, alleati fra loro, passano sopra a quella persona. E sembrano neppure vederla. Troppe figure si agitano attorno a quel letto: medici, religiosi, politici.
In quella specie di quadro che è il capezzale bisognerebbe prestare più umana attenzione alla moglie, a quella donna minuta che gli accarezza le mani, con le lacrime ormai consumate.
L’insegnamento e l’apprendimento in rapporto a questa situazione è che la vita è veloce , mentre la politica è lenta e non riesce a stargli dietro.
E oggi Piergiorgio Welby ha ancora una volta preso la parola. Con la sua soggettività ha provato ad oltrepassare quella barriera che gli impedisce di prendere pace.

IL TESTO DELLA LETTERA

Signor Direttore,

sono Piergiorgio Welby, che ha preso il posto di Luca Coscioni quale Presidente dell’Associazione radicale che porta il suo nome, e come esponente della costellazione di soggetti politici Radicali, nazionali e internazionali, che operano con e attorno al Partito Radicale.

Ormai, 77 “giorni” fa, mi sono rivolto pubblicamente, personalmente, politicamente, al Presidente della Repubblica, quale supremo Garante del rispetto della Costituzione, della legalità repubblicana; per ottenere finalmente l’esercizio del mio diritto naturale civile politico personale ad una mia morte – naturale -. Solo modo possibile per conquistare (anche in Diritto) pace per questo “mio” corpo altrimenti sempre più straziato e torturato. Sequestratomi, per una kafkiana imposizione “etica” dall’ordinamento e del potere burocratico, o anche a esso imposto. Dobbiamo tutti – credo- gratitudine per la qualità, l´importanza, della Sua risposta e delle Sue esortazioni che hanno indubbiamente consentito il grave e grande dibattito che unisce, anzichè dividere, coloro che vi partecipano, che non sono indifferenti.

Signor Direttore,

Come già Luca Coscioni, a mio turno sono oggi oggetto di offese e insulti, di pensieri, parole, aggressioni alla mia identità ed alla mia immagine, quasi non bastassero quelle perpetrate al corpo che fu mio e che, invece, vorrei, per un attimo almeno, mi fosse reso come forma – qual è il corpo – necessaria del mio spirito, del mio pensiero, della mia vita, della mia morte; in una parola del mio “essere”.

Sono accusato, insomma, di “strumentalizzare” io stesso, la mia condizione per muovere a compassione, per mendicare o estorcere in tal modo, slealmente, quel che proponiamo e perseguiamo con i miei compagni Radicali e della Associazione Luca Coscioni, che ha ragione ormai antica e sempre più antropologicamente, culturalmente, politicamente forte; “dal corpo del malato al cuore della politica”. O, ancora, non sarei, come già Luca Coscioni, che io stesso strumentalizzato dai “miei”, così infamandoci come meri oggetti o come soggetti plagiati. (O indemoniati, vero… Signori?). Strumenti? Sono, invece, limpidi obiettivi ideali, umani, civili, politici.

Dalla mia prigione infame, da questo corpo che – per etica, s’intende – mi sequestrano, mi tornano alla memoria le lettere inviate alla… “politica” da un suo illustre, altro, “prigioniero”: Aldo Moro. Pagine nobili e tragiche contro gli uomini di un potere che aveva deciso di condannarlo (anche lui per etica, naturalmente) a morte certa, anche lui ad una forma di tortura di Stato, feroce ed ottusa. Quelle pagine non potrei farle mie. Anche perché furono perfette, e lo restano.

Un pensiero, ancora, un interrogativo, un dubbio: dove sono mai finiti per tanti “credenti” Corpo mistico e Comunione dei Santi?

Comunque Addio, Signori che fate della tortura infinita il mezzo, lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa dei vostri valori! Chi siano (e in che modo) i morti o i vivi che rimarranno tali quando saremo tutti passati, non sappiamo, né noi né voi.

Io auguro a voi ogni bene. Spero davvero (ma temo fortemente che così non sia), spero davvero che questo augurio vi raggiunga, si realizzi, perché questo “voi” oggi manca anche a me, anche a noi altri.

Per finire, grazie Signor Direttore per la sua tollerante attenzione. A questo mio estremo, ultimo tentativo di trasmettere parola. Grazie sincero,

Suo
Piero Welby

p.s. Chiedo – ringraziandoli fraternamente – alle oltre 700 mie compagne e compagni, antiche e nuovi, che sono in sciopero della fame, alcuni al sedicesimo giorno, di sospendere questa loro forma di lotta, che ha contribuito in modo determinante al radicamento di un nuovo grande momento di dialogo e di conoscenza a tutto il Paese.

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