Dopo il caso della Fiera del Libro di Torino la presenza degli scrittori israeliani ospiti d’onore a Parigi ha scatenato l’impulsiva reazione della cultura musulmana al Salon du livre di Parigi.
Visto che in questi stessi giorni al Festival della matematica 2008 di Roma è stato accolto con giustificati onori Hans Magnus Enzenberger, tanto lodato dalla intellettualità italiana, vorrei ricordare il suo prezioso libro Il perdente radicale, Einaudi, 2007, p. 73 che, all’opposto, questa stessa intellettualità di sinistra ha a suo tempo ignorato.
Nella quinta argomentazione – nella quale diceva che la civiltà arabo-musulmana, invece di provare a rinnovare le proprie coordinate culturali adattandole ai cambiamenti sistemici del mondo, reagisce con il vittimismo, il pianto mediterraneo, l’urletto isterico, l’ira lamentosa, l’odio dei mediocri, il ditone alzato a maledire Hans – Magnus Enzenberger scrive:
questa fede nella propria supremazia ha un fondamento religioso. In secondo luogo collide con la propria evidente debolezza. Questo genera un adontamento narcisistico in cerca di compensazione. Perciò attribuzioni di colpa, teorie del complotto e proiezioni di ogni genere caratterizzano il sentire collettivo. Secondo il quale il mondo esterno ostile mira unicamente all’umiliazione dei musulmani arabi.
Sicché si reagisce con estrema permalosità a ogni offesa presunta o reale …
A rimetterci le penne nei conflitti che nascono da questa mentalità è l’elementare principio della reciprocità. Così, ad esempio, esistono due sensibilità assolutamente incomparabili tra loro: la propria e quella degli altri. Ferire quella degli infedeli è un esercizio quotidiano. (Del resto già questa definizione fa riflettere; evidentemente altre religioni, diverse dall’islam, non credono a qualcos’altro, bensì a nulla). Offendere chi la pensa diversamente fa parte del repertorio standard dei media islamici. Quando mostrano Ariel Sharon con un’ascia a forma di svastica mentre macella bambini palestinesi, la cosa è normale; per converso il mondo arabo si sente offeso, se qualche caricaturista lo prende in giro. La costruzione dì moschee in tutto il mondo è pretesa come un diritto inalienabile; la costruzione dì chiese cristiane in molti paesi arabi è impensabile. La propaganda della fede musulmana è un dovere sacro, la missione di altre religioni un crimine. Il semplice possesso di una Bibbia viene penalmente perseguito nell’Arabia Saudita. Un califfo autonominatosi tale si scaglia contro la propria espulsione in quanto lesiva dei diritti dell’uomo. Laddove l’incitamento ad ammazzare un romanziere apostata è approvato da molti musulmani. Slogan del tipo «morte agli infedeli (agli americani, ai danesi, ai tedeschi, ecc.)» sono considerati una forma legittima di protesta, per la quale tutti devono mostrare comprensione. Con l’aria dell’innocenza bistrattata predicatori dell’odio pretendono la libertà di opinione, la cui eliminazione è il loro scopo dichiarato. La disintegrazione al tritolo delle statue di Buddha a Bamiyan è stata considerata in Afghanistan un atto di devozione; di reazioni violente in Thailandia o in Giappone non è giunta notizia. Ma non appena si prospetta la proiezione di un film che critica i costumi islamici, la plebaglia si schiera compatta e fioccano le minacce di morte. Si chiede a gran voce rispetto, ma lo si nega agli altri. (p. 53-54)Per la cronaca storica mi appunto questo articolo:
“E’ un po’ grottesco parlare di boicottaggio in uno degli eventi culturali più importanti dell’anno, il Salone del libro di Parigi. Ma questo era il rischio (diventato una realtà, appesantita da psicosi e misure di sicurezza per la visita ufficiale di Shimon Peres) essendo ospite d’onore la letteratura ebraica, in occasione del sessantesimo anniversario dello Stato d’Israele.
Boicottaggio dichiarato e attuato da parte di scrittori e Paesi arabi; voci di censura (o meglio, appello al politicamente corretto) da parte delle autorità israeliane, secondo quanto riferisce il quotidiano “Haaretz”. Ma la cultura ha una forza intrinseca che trapassa muri e diplomazia, e la parola degli scrittori diventa un grido di libertà, beffardo contro la stupidità dei bavagli, imposti o presunti.
Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua – i tre ‘tenori’ della letteratura israeliana – ne hanno dato ieri una testimonianza appassionata, raccontando l’esperienza di tante fratture che li accomuna come esseri umani e narratori.
La frattura fra il cittadino di una realtà inaccettabile e l’artista che sogna di cambiarlo, fra identità ebraica e coraggiose posizioni politiche, fra amore di patria e comprensione degli altri: vicini, avversari, nemici. Nel paradosso di essere oggi boicottati e nello stesso tempo di costituire la voce più critica della politica di Israele.
Per David Grossman, la frattura è arrivata all’estremo sacrificio, la perdita del figlio soldato, durante la guerra del Libano di due anni fa. Nel suo ultimo libro, in lavorazione al momento del lutto, lo scrittore rielabora il tema della perdita: dei propri cari, della terra, dell’identità. ‘I dirigenti attuali hanno fatto così poco per preservare questa rara possibilità che ci ha donato la storia. Hanno sperperato un miracolo. Ad Amos Oz dissi che non sapevo se sarei riuscito a salvare il mio libro e lui mi disse che sarebbe stato il libro a salvarmi‘, ricorda. Si parla di libri, poesia e creazione artistica, ma il fantasma del conflitto aleggia nella sala. ‘Il boicottaggio – dice David Grossman – è inaccettabile contro ogni forma di cultura ed espressione, perché rafforza estremismo e pregiudizio. E’ un boomerang contro chi lo ha promosso, contro coloro ai quali vorremmo poter parlare’.
‘Impedire il confronto è un’idiozia’, aggiunge Amos Oz, che smentisce di aver ricevuto le ‘raccomandazioni’ di “Haaretz”: ‘Non saremmo qui se fosse vero’.
I tre scrittori hanno affrontato il tema della ‘prigione psicologica’ in cui si muovono e della libertà artistica che permette di trapassare i cliché e nonostante tutto sperare. ‘Quando scrivo – racconta Amos Oz – uso una penna nera e una penna blu. Una per gli articoli di giornale e un’altra per la letteratura’. ‘I media – dice Grossman – utilizzano stereotipi per descrivere una situazione terribile. La lingua degli scrittori è quella delle emozioni, va dritta all’anima del lettore, forse lo spinge a riflettere, talvolta a cambiare idea. Nella vita reale non abbiamo sempre voglia di conoscere l’altro. Anche quando facciamo l’amore, riusciamo a conoscere l’altro fino in fondo? Non ne sono sicuro. Nel romanzo, un personaggio può esere descritto in modo totale, o almeno come l’autore lo vede veramente’.
‘Quando esco la mattina – racconta Amos Oz – osservo la gente cominciando dalle scarpe e poi provo a mettermi dalla parte degli altri, a entrare nella pelle degli altri. Così la letteratura diventa comprensione’. Yehoshua spiega: ‘L’attualità e le vicende politiche possono impregnare i nostri libri, ma non sono manifesti politici e non lo saranno mai. La letteratura è una forma di relazione fra noi e gli arabi, permette di andare, come Proust e Dostoevskij, alla ricerca di se stessi, alla radice delle cose, all’infanzia, al tempo perduto, all’origine della nostra situazione terribile’.
Il messaggio passa nel pubblico, foltissimo, che ascolta in silenzio questa finta estraniazione dell’artista che diventa arma creativa e ultima risorsa per coltivare la speranza come un dovere, più che come una possibilità. ‘L’esplosione della cultura ebraica in molti campi non è un buon segno. In molte epoche l’arte fiorisce quando la situazione politica e sociale è pessima. Mi piacerebbe che succedesse il contrario’, dice Yehoshua. ‘Gli artisti sono come fusibili che reagiscono al male che li circonda. E’ questa nostra paura esistenziale che produce cultura.
Oggi la nostra vita non è una vita, ma violenza e paura perpetua’, dice Grossman. ‘Viviamo in un’epoca post moderna e nello stesso tempo il fanatismo ci riporta in un’epoca arcaica. Dopo il XXI secolo, vivremo in un nuovo Medioevo?’, si chiede Amos Oz. Non si avrebbe voglia di annuire, nel salone del dialogo monco, della cultura in ostaggio, di un’altra occasione perduta.” (da Massimo Nava, ‘Il boicottaggio punisce gli arabi’, “Corriere della Sera”, 15/03/’08)

