Oltre il populismoPier Ferdinando Casini
La Stampa
10-04-2009Caro direttore,
esistono differenti visuali da cui osservare e analizzare una realtà complessa come la politica italiana. Se mi ponessi da quella del sociologo e dell’editorialista, ad esempio, devo ammettere che difficilmente potrei scattare una fotografia più nitida nella sostanza di quella immortalata nel fondo di Luca Ricolfi pubblicato in prima pagina sulla Stampa lo scorso lunedì 6 aprile.
Ricolfi osserva come la politica e la democrazia italiane siano cambiate negli ultimi anni, entrando in una fase «post-democratica» in cui «i partiti contano sempre di meno e le identità politiche si forgiano innanzitutto nel rapporto tra elettori e leader». E aggiunge che Pdl e Pd oggi sono praticamente la stessa cosa, «due nomenklature conservatrici», «due oligarchie in cui gli elettori contano quasi niente e le segreterie di partito sono onnipotenti». Concludendo che l’unica fondamentale differenza è che la destra vince perché c’è Berlusconi che «in caso di dissenso decide per tutti», mentre a sinistra la mancanza di un leader, e quindi di decisionismo, allontana gli elettori.
Fotografia perfetta, appunto. Credo però che Ricolfi comprenderà che nell’ottica del politico non ci si possa accontentare di fotografare l’esistente, ma sia necessario spingersi oltre, tentando di indicare una direzione alla società in cui si vive e di trovare soluzioni ai problemi della comunità. Quello che voglio dire è che probabilmente Ricolfi ha ragione: se il centrosinistra negli ultimi quindici anni fosse stato meno litigioso e più decisionista, se avesse avuto un leader capace di zittire ogni dissenso interno alla sua coalizione con un carisma analogo a quello berlusconiano, forse oggi non esisterebbe uno scarto tanto ampio di consensi tra Pdl e Pd. Ma di sicuro ora ci ritroveremmo con due nomenklature conservatrici, due oligarchie «in cui gli elettori contano quasi niente» in grado di contendersi il governo del Paese, anziché una sola.
E allora? Già, la domanda che mi pongo, nell’ottica del politico, almeno nella mia, ma credo anche in quella del cittadino comune, è proprio questa: potremmo accontentarci di uno scenario così cupo per la politica italiana, di un’alternativa tra padella e brace con due grandi contenitori equivalenti, leaderistici, conservatori, populisti, in clamoroso deficit di liberalismo? Contenitori che con la stessa facilità con cui promettono rivoluzioni liberali, grandi riforme, riduzioni di imposte, snellimenti della macchina statale, abolizione delle province, riforma dei servizi pubblici locali, si rimangiano tutto pochi giorni dopo le elezioni. Soggetti politici che votano, o non ostacolano, un federalismo vuoto di contenuti e dannoso nella sostanza perché la confusione di competenze e tra centri di spesa andrà a paralizzare lo Stato centrale senza affiancargliene uno federale in grado di funzionare, solo per inseguire altri ancora più populisti come la Lega.
Personalmente ho deciso di non accontentarmi più, e sono convinto che molti italiani la pensino allo stesso modo e molti altri lo comprenderanno prima o poi.
Populismo e leaderismo in questa fase di «post democrazia», come sostiene Ricolfi, sono armi vincenti per aggiudicarsi la maggioranza. Ma se non producono una buona politica sono armi da abbandonare. Il decadimento economico, vorrei aggiungere anche sociale e morale, del Paese nella Seconda Repubblica non è forse il prodotto dell’utilizzo di quelle armi?
Per questo un anno fa, sapendo a cosa rinunciavamo – una vittoria certa assieme a Berlusconi – e non sapendo a cosa andavamo incontro, abbiamo abbandonato la barca del bipolarismo populista e ci siamo schierati da soli contro i due grandi contenitori. Per questo lavoriamo da un anno al cantiere di un nuovo partito, aperto, democratico, con regole interne, un partito vero insomma, che prende atto del fallimento del sistema attuale e quindi della necessità di chiudere e superare anche l’esperienza dell’Udc, che in quel sistema ha operato, con molti buoni risultati e inevitabilmente anche con diversi errori, per aprirne entro l’anno una nuova e differente, un partito che non dovrà essere né leaderista né populista, ma plurale, ovvero capace di esprimere più voci e più leader che si riconoscano però attorno ai medesimi valori di fondo, del riformismo, del liberalismo economico, del cattolicesimo democratico e popolare e della laicità dell’impegno politico.
Un nuovo soggetto, consapevole dell’esigenza di decisione che il Paese avverte, ma che non incorra nell’errore di identificarsi con il governo anziché di rappresentare le istanze e i problemi della società in cui vive, che non mortifichi le istituzioni e non trascuri il ruolo essenziale del Parlamento. Già Luigi Sturzo, lo stesso che anche Pdl e Pd non perdono occasione di richiamare a parole, scriveva che «bisognerebbe semplificare la procedura parlamentare e spazzare via molte questioni tecniche che potrebbero essere vantaggiosamente affidate a commissioni speciali». Aggiungendo subito dopo: «Ma sarebbe esagerato biasimare troppo severamente la lentezza dei parlamentari. Sono spesso più utili per le leggi che rigettano, che differiscono o rivedono, che per quelle che votano a tamburo battente».
E poco male se non seguiremo anche noi la moda di oggi. Siamo pazienti e tenaci. Quando prima o poi la maggioranza del Paese si accorgerà che populismo e leaderismo sono abiti troppo stretti, almeno ci sarà qualcuno che avrà confezionato un vestito diverso. Sarà stata pure, almeno fino a quel momento, una minoranza, ma forse non così tanto minoranza come si vorrebbe far credere. E in ogni caso le mode, per fortuna anche quelle sbagliate, passano.
Oltre il populismo Pier Ferdinando Casini La Stampa 10-04-2009
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