“Non vi è separazione fra luoghi di culto e organizzazione politica e sociale, di Ugo Volli
Per un liberale come io mi considero,
- tutti gli uomini sono uguali, tutti hanno diritto alle loro idee, alla loro fede, alla loro espressione, al loro culto. Ma tutte le libertà hanno limiti, in particolare nelle libertà altrui.
- Tutti hanno diritto di parlare, ma ognuno ha diritto di non sentire e non dev’essere forzato a farlo; le imprese hanno diritto di fare pubblicità, ma i cittadini hanno diritto a che il loro cimitero o la loro casa siano quieti abbastanza per permetter loro di ricordare i loro cari o di vivere la loro vita. In particolare la sicurezza individuale e collettiva e la dignità personale costituiscono un limite per le libertà di manifestazione delle opinioni, di associazione, e anche di culto.
- Tutti possono dire quel che vogliono, ma nessuno può incitare ad ammazzare qualcun altro o a umiliarlo;
- tutti possono associarsi, ma non per agevolare il terrorismo;
- tutti possono pregare ciò che vogliono, ma non possono farlo proprio comunque vogliano, non per esempio trasformando i luoghi di culto in centri di selezione, di addestramento e di finanziamento per l’omicidio. I partiti politici sono tutti liberi, ma non quelli che esercitano la violenza, la fiancheggiano o ne predicano il valore. Le religione sono libere, se non opprimono i loro fedeli.
Questo è un punto importante e spesso poco compreso.
- Non vi è un diritto delle entità collettive (religioni, gruppi di origine nazionale, famiglie – salvo i minori – ecc.) di imporre costumi (più o meno tradizionali) a chi vi appartiene, né un diritto di imporre l’appartenenza. I diritti appartengono in primo luogo alle persone e sono delegabili ai gruppi, ma la delega è revocabile.
- Non vi è simmetria fra la volontà di una figlia di vivere la vita come crede e quella della famiglia o della comunità che vuole impedirglielo con la forza. La prima è l’esercizio di un diritto, la seconda una prepotenza criminale. Un gruppo che volesse imporre con la forza ai propri membri il burka, la barba, la castità prematrimoniale, – o se per quello anche la kashrut – violerebbe la sua libertà e andrebbe represso, con tanta maggior durezza quanto più è sistematica la violazione. Dato che molti di questi gruppi sono informali, la loro responsabilità non ha bisogno di essere dimostrata formalmente – deve valere un principio di precauzione a favore dell’individuo, fino perfino alla proibizione del possibile comportamento imposto. Se nessuno volesse imporre il burka e fosse davvero una libera scelta, non ci sarebbe ragione per proibirlo, salvo che nelle circostanze in cui bisogna poter identificare le persone con sicurezza. Ma dato che di fatto si cerca di imporlo sistematicamente e con la forza, è giusto proibirlo.
Queste nozioni sono ovvie in una democrazia moderna, ma vanno richiamate rispetto al grande dibattito in corso, anche se sottaciuto dai grandi media, sulla cosiddetta islamofobia. L’Islam è certamente una realtà multiforme e complessa, come sostengono spesso i suoi difensori. Non è una religione gerarchica con un centro unico, è divisa in filoni e sistemi di fede assai diversi. Continua però a valere per esso un cospicuo confine fra interno e esterno, che lo definisce in maniera sufficientemente precisa come entità storico-sociale.
E’ evidente che in seno al mondo islamico e in nome di esso (non importa se abusivamente o meno) sono sorti dei movimenti che praticano la guerriglia, il terrorismo, la discriminazione religiosa e razziale, la repressione violenta e sanguinosa dei dissensi teorici ma anche dei costumi diversi da quelli approvati, come l’omosessualità o il sesso fuori dal matrimonio. Milioni di singoli islamici non ne portano alcuna responsabilità e hanno pieno diritto di non essere giudicati per questi fatti; ma molti altri milioni (e a quanto mostrano i sondaggi la grande maggioranza) mostrano diversi gradi di simpatia, appoggio, sostegno, partecipazione attiva a queste forme di violenza. E’ ragionevole dunque che scatti il principio di precauzione a favore degli individui cui ho fatta accenno sopra.
Bisogna aggiungere qui un altro argomento importante. La religione come pura organizzazione del culto cui ci siamo riferiti finora è in realtà un’idealizzazione. Le religioni tradizionali hanno avuto pretese ben più vaste su tutti i lati dell’esistenza e si sono poste come anche come agenzie politiche. Così è stato per esempio nell’Ebraismo del Secondo Tempio e spesso anche dei ghetti, così del Cristianesimo fino a tempi molto recenti e su certe cose e in certi luoghi ancora oggi, così è stato di un Islam che non ha conosciuto né l’esilio ebraico, né la Riforma cristiana, né il Rinascimento, l’Illuminismo, il Liberalismo e non ha affatto rinunciato alla propria pretesa di regolare tutto. Con l’aggravante chementre l’Ebraismo e il Cristianesimo hanno riconosciuto in epoche diverse delle loro storie la legittima pluralità delle nazioni e la distinzione fra ordine politico e religioso, questo non è mai avvenuto per l’Islam che considera pienamente legittima solo l’unità del suo popolo e un potere esclusivamente religioso. Nessuna legge di origine umana può modificare in alcunché per l’Islam quella divina, nè scostarsi da essa e dalla sua interpretazione tradizionale fissata mille anni fa, che entra dettagliatamente nel diritto di famiglia, nei comportamenti privati, nei rapporti interpersonali. Di conseguenza non vi è separazione fra luoghi di culto e luoghi di organizzazione politica e sociale. Le moschee sono entrambe queste cose e non potrebbero funzionare solo come spazi di preghiera.
Aggiungete infine una lunga storia di conquiste religiose realizzate con la spada e il rifiuto di considerare pari i non islamici anche sul piano dei diritti civili: tutte cose prescritte dalla legge religiosa e dunque non modificabili, come la teoria che non vi possa essere vera pace permanente fra musulmani e infedeli, o il permesso per i primi di praticare la dissimulazione politica ai danni dei secondi o di stracciare a convenienza i trattati con loro.
Vi sono dunque buoni motivi non certo per impedire ai singoli musulmani di pregare come credono (non vi è nessun bisogno di moschee per assolvere agli obblighi religiosi islamici), ma di essere diffidenti nei confronti dell’edificazione di centri politico-sociali oltre che religiosi, come sono le moschee, in cui facilmente si violerebbero quei diritti di sicurezza di cui ho parlato prima. L’esperienza italiana ha mostrato che in parecchie occasioni, a Milano Torino ecc. le moschee hanno funzionato spesso negli scorsi anni come organi di reclutamento, finanziamento e appoggio logistico per il terrorismo. Dato che qui agisce un principio di precauzione, spetta alle organizzazioni dimostrare di essere in grado di evitare i problemi di cui parliamo
Vi è infine un’ultima considerazione da fare. Nell’ambito religioso, è inutile dirlo, la dimensione simbolica è dominante. Le costruzioni religiose marcano il territorio e gli danno senso. Chiunque sia stato in Israele sa che tutte le vecchie chiese cristiane (incluso il Santo Sepolcro) e i tradizionali luoghi santi ebraici sono dominati da moschee islamiche, segno del potere esercitato dagli Ottomani, che lo stato ebraico ha deciso di non rimuovere. Ma è perfettamente legittimo non volere che nuovi segni vengano a marcare un predominio che potrà essere rivendicato anche dopo otto secoli (com’è stato il caso della Cattedrale “mezquita” di Cordoba, solo qualche mese fa – il che fa molto sospettare per il nome scelto dagli organizzatori per il nuovo centro islamico di New York, Centre Cordoba). Questa considerazione spiega la legittimità del referendum svizzero che ha proibito i nuovi minareti nel territorio della Confederazione (i cittadini hanno diritto di decidere collettivamente che tipo di grandi simboli voglio ammettere sulla sfera pubblica) e anche dell’opposizione all’edificazione di un centro islamico sovrastante Ground Zero. Il senso simbolico di questa costruzione avrebbe nella migliore delle ipotesi profondamente deformato il valore di un luogo che è stato teatro del più grande attentato islamico della storia. Se gli ebrei hanno potuto legittimamente (e con successo) opporsi all’erezione di un monastero di monache Clarisse ad Auschwitz (pur essendo evidente che non c’era nessun sospetto di complicità fra il loro culto e la responsabilità della Shoah, a maggior ragione non viola la libertà religiosa opporsi al gesto simbolico di costruire un centro islamico prospiciente il luogo di una strage immensa compiuta in nome dell’Islam.”
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