The Tree of Life di Terrence Malick, 2011

 

Trama tratta da Corriere della Sera:

Si traccia l’evoluzione di un bambino di undici anni, del Midwest, Jack, uno dei tre fratelli. In un primo momento tutto sembra meraviglioso per il bambino. Come la madre, vede con gli occhi della sua anima. Lei rappresenta la via dell’amore e della misericordia, mentre il padre cerca di insegnare al figlio le via della vita mettendo se stesso in primo piano. Ciascun genitore cerca di ottonere la sua fedeltà, e Jack deve conciliare le loro richieste. L’immagine si oscura quando per la prima volta ha la testimonianza della malattia, della sofferenza e della morte. Il mondo, una volta una cosa gloriosa, diventa un labirinto. Da qui parte al storia di Jack adulto, un’anima persa in un mondo moderno che cerca di scoprire tra le scene mutevoli del tempo ciò che non cambia: lo schema eterno di cui facciamo parte. Più tardi si rende conto che ogni cosa che fa parte del nostro mondo sembra un miracolo prezioso, incomparabile. Jack, con la sua nuova comprensione, è in grado di perdonare il padre e di muovere i primi passi sul sentiero della vita. La storia si conclude con la speranza, riconoscendo la bellezza e la gioia in tutte le cose, nel quotidiano e, soprattutto, nella famiglia – prima nostra scuola – l’unico luogo dove la maggior parte di noi impara la verità sul mondo e su noi stessi, o scopre la lezione importante della vita, l’amore disinteressato

Qualcuno ha paragonato l’intensità di quest’opera che si interroga, contemporaneamente, sull’infinitamente grande e sul privato di un nucleo familiare

Recensione di My Movie:

…. spaziando dall’uso di un montaggio emotivo da avanguardia del cinema degli esordi ad una sequenza curiosamente molto vicina al finale del recentissimoClint EastwoodHereafter. Il confronto, però, scorretto ma tentatore, non si pone: la passeggiata di Malick in un’altra dimensione è potente e infantile come può esserlo solo il desiderio struggente che nutre il bambino di avere tutti nello stesso luogo, in un tempo che contenga magicamente il presente e ogni età della vita

Recensione da Fim.it:

… Possiamo certamente collocare la pellicola nel podio dei film più visivamente stupefacenti del nuovo millennio: dai viottoli della provincia texana, la macchina da presa del regista sale fino alle stelle  – con tanto di big-bang, dinosauri e asteroidi – mostrate come mai nessuno aveva fatto prima. Come Kubrick in “2001”, Malick vira per lo sci-fi filosofico, creando il suo monumento mistico alla specie umana, la cui vita è segnata da una regola molto semplice nell’essere enunciata, totalmente difficile nell’essere applicata: l’unico modo per essere felici è amare.

Ancora una volta il regista affida lo spettatore ai pensieri intimi dei suoi protagonisti, parole sussurrate appena che però risuonano come bombe emotive nell’animo umano …

Recensione da Micromega:

… Malick non filma, canta. The Tree of Life è un’opera-mondo che si dispiega con la leggerezza di un poema sinfonico-filosofico che mette in scena l’atto del filmare come atto del pensare il filmare stesso. Non un’immagine inutile, non un movimento di macchina scontato. Malick giunge alla fine del mondo e contempla il divenire del mondo come un percorso di scoperta della comunione delle cose e del mondo in un movimento dolcissimo e vertiginoso che abbraccia lo sguardo e lo conduce alle radici e oltre del cinema …. Un padre (Brad Pitt, per sempre meritorio per avere avuto il coraggio di produrlo), Dio imperfetto, vuole insegnare ai figli come muoversi nel mondo, ma si smarrisce insieme a loro, per ritrovarsi in un Hereafter messo in una scena come performance del Living Theatre.

Malick sembra quasi reinventare la potenza di Faulkner nel suo tentativo di ascoltare persino l’erba che cresce. The Tree of Life porta tutto il cinema di Malick nei giorni del cielo in una tensione costante ad andare oltre ….

da recensione di Culframe.com:

… Se un film potesse farsi preghiera, sarebbe questo. Non un’invocazione meramente religiosa ma una devozione ispirata al significato ultimo dell’esistenza, nella quale convergono l’amore e la morte, la compassione e la rabbia, il perdono e la vendetta in un’eterna dicotomia che si dipana da quella, primigenia, della Natura e della Grazia. Malick esplora un universo di emozioni che trascendono il sentimento umano per rarefarsi in un’atmosfera visionaria di filosofica profondità.
The Tree of Life è più di un film, o meglio, non è “solo” un film. E’ un’opera enorme, ambiziosa, sconfinata come i temi che il regista americano affronta: la fine dalla vita, la possibilità del perdono, la forza del ricordo, il mistero del Creatore. Interrogativi che tendono all’assoluto di fronte al quale Malick si pone come un appassionato concertista che da esso estrapola, nota dopo nota, la sua personale, struggente sinfonia ….

Estratti da recensioni in: il cinema 24 ore:

“Si esce frastornati dalla proiezione di ‘The Tree of Life’: per la forza delle immagini, la sacralità dei temi ma anche per la complessità e l’oscurità di troppi dettagli e scelte registiche. Terrene Malick non è mai stato un regista facile e i suoi quattro precedenti film ci hanno insegnato che l’inquadratura di un fiore o di un filo d’erba può essere importante come un dialogo o una scena intera. Qui però la sua ambizione vola ancora più in alto, alla ricerca di quell”opera-mondo’ capace di dire insieme la complessità e la semplicità della Vita e della Storia. (…) E quello che appare evidente al ‘filosofo’ Malick (ha insegnato questa materia per anni), il ‘cineasta’ Malick si sforza di metterlo in immagini, senza preoccuparsi né della linearità narrativa né delle aspettative del pubblico. (…) Più che pensare ai film precedenti di Malick, per misurare l’ambizione dell’operazione sarebbe giusto rifarsi a ‘2001: Odissea nello spazio’, forse anche al segmento stravinskiano di ‘Fantasia’. Ma in quei film c’era sempre la razionalità a organizzare la materia: qui si ha l’impressione che il regista si sia fatto guidare dall’intuito, dalla visionarietà, dall’ambizione, senza chiedersi fino a dove la sua scommessa fosse intellegibile. Così, dopo essersi fatti affascinare da immagini straordinarie, dopo aver seguito la scoperta delle durezze della vita attraverso gli occhi di un adolescente e aver capito che il sogno americano (…) rischia di farci perdere il senso profondo della realtà, restiamo comunque con qualche dubbio, come di fronte a un’opera di cui si ammira l’ambizione ma che finisce anche per esserne un po’ soffocata.” (Paolo Mereghetti, ‘Il Corriere della Sera’, 17 maggio 2011)

“L’unico film finora fischiato al Festival di Cannes, fra tanti mediocri, è l’opera più attesa del festival e della stagione cinematografica, ‘The Tree of Life’ del leggendario Terrence Malick. Il capolavoro annunciato, la Palma d’Oro sicura, il quinto film in quarant’anni del più carismatico artista vivente, ha spaccato la sala della prima mondiale fra chi gridava al genio e chi alla boiata pazzesca. Ma, tanto per cominciare, si tratta del segno del vero artista. (…) Il conflitto fra un autoritario padre e una madre d’infinita dolcezza dà vita a scene di soverchiante potenza visiva e in parallelo incarna la lotta eterna fra Natura e Grazia, egoismo e amore. Senza mai scadere nell’univocità del Bene contro Male, ma con uno sguardo carico di una pietas d’altri tempi, anzi d’altre ere. Qui si dispiega il genio dell’autore della ‘Sottile linea rossa’. (…) Dove è più difficile avventurarsi è nel prologo e nell’epilogo filosofico-scientifico-religiosi, che avvolge la piccola grande vicenda degli O’Brien in una parabola di miliardi di anni, dal Big Bang alla futura morte del pianeta, passando per i dinosauri. Vi si ammira l’erudizione di Malick, dalla laurea ad Harvard, alle traduzioni di Heidegger, agli ultimi anni trascorsi a discutere di universi paralleli con i maggiori astrofisici del mondo. Ora, sarebbe sciocco dividere il giudizio in due. La parte cosmogonica è funzionale alla narrazione, ne inquadra il senso e il valore d’insegnamento etico sull’importanza dei sentimenti.” (Curzio Maltese, ‘La Repubblica’, 17 maggio 2011)

“‘The Tree of Life’ è un compendio estremo delle tematiche e della poetica di Terrence Malick, l’autore che contende a Kubrick il primato del regista più misterioso e meno prolifico dei cinema americano. Partendo da un prologo di valenza mistico-metafisica (troppo lungo, troppo esplicito, verrebbe da dire: ma, eliminandolo, il risultato finale sarebbe lo stesso?), l’autore scende nel cuore di un singolo nucleo familiare per ricostruire su toccanti frammenti di memoria (dell’adulto Sean Penn, allora ragazzino, e non solo) un’infanzia dominata da due figure a contrasto: un padre (prova assai matura di Brad Pitt) dall’ego troppo rigido e una madre (la virginea Jessica Chastain) fonte di puro amore. Resa fantasmatica dal velo della distanza, quella infanzia assume un significato che ci riguarda tutti: mostra da un lato il percorso di continuità (anche crudele) della natura e della specie, dall’altro l’immanenza nelle cose umane di una atemporale spiritualità. Forse ‘The Tree of Life’ è opera non sempre calibrata, ma quanti film ci regalano l’emozione di penetrare in una dimensione dell’anima?” (Alessandra Levantesi Kezich, ‘La Stampa’, 17 maggio 2011)

“Il più atteso, il più pretenzioso, il più fischiato (dalla critica). Si può riassumere così ‘The Tree of Life’, il film che segnava il ritorno sul grande schermo di Terrence Malick, quattro pellicole all’attivo in quarant’anni di carriera. (…) Un po’ troppo eppure troppo poco, perché l’innesto fatica ad attecchire, la grandezza visionaria raggiunge il manierismo, la storia in sé (padre duro e insoddisfatto delle proprie realizzazioni che vorrebbe imporre ai figli la propria volontà, madre dolce e comprensiva, ragazzi ribelli in cerca del proprio io) abbastanza tradizionale. Naturalmente, Malick conosce il mestiere, e lo conosce bene: gli attori, Brad Pitt in primis, rispondono magnificamente, luci costumi, inquadrature sono da manuale, la sensibilità estetica che gli è propria permette degli effetti pittorici di grande suggestione, c’è un uso sapiente della tecnologia.” (Stenio Solinas, ‘Il Giornale’, 17 maggio 2011)

“Decisamente troppo ambizioso, frutto di lunghi rimaneggiamenti e ripensamenti, il film tuttavia ha il coraggio di innalzare al cielo un inno alla vita in un festival dominato dalle cupe visioni di un mondo occidentale in decadenza e di affrontare il trascendente, le grandi domande dell’uomo, un uomo visto nel suo intimo e nella dimensione cosmica. Con un andamento antinarrativo, quasi impressionista, affascinante proprio per la sua natura imperfetta e magmatica, il film racconta infatti il viaggio esistenziale di una famiglia texana degli anni Cinquanta vista con gli occhi del figlio maggiore, Jack, che da grande avrà il volto di Penn. Ancora una volta Malick racconta un paradiso perduto insieme all’innocenza dell’infanzia e mette a confronto natura (incarnata da un padre severissimo – Brad Pitt – talora violento, teso esclusivamente alla sopravvivenza) e la grazia (di cui si fa portatrice la madre- Jessica Chastain – che predica l’amore e il perdono). (…) La parte più debole del film è invece quella che racconta per almeno venti minuti la Creazione, a partire dal buio, da qualche bagliore, per proseguire con il Big Bang, i dinosauri e infine la nascita dell’uomo, tra ‘2001 Odissea nello spazio’, ‘Fantasia’ e ‘Jurassic Park’.” (Alessandra De Luca, ‘Avvenire’, 17 maggio 2011)

“‘L’albero della vita’, quinto film in 40 anni di Terrence Malick, viene da un pianeta arcano e da un tempo siderale del cinema. Da quella zona di sperimentamene, dove abitano Murnau e Kubrick, Tarkovski, Herzog e Fellini, l’ottavo lungometraggio in concorso di Cannes 64 preleva forse il più rischioso passo narrativo dei nostri tempi, ellittico, associativo, sensoriale e affettavo, biblico e metafisico, lirico e di acute metonimie. E’ un film di poesia. Chiaro e profondo. Disponibile a fragorosi rifiuti. Il coinvolgimento dell’autore, lettore e traduttore di Heidegger, panteista e spiritualista, è totale. E questo, in parte, pesa sulla dimensione profetica di un ‘film pensante’, filosoficamente stereofonico, di emozioni forti e dirette, avvolto dalla musica di Mahler e Bach. Due ore e venti minuti, ma quando si chiude sul limbo dei tempi, una landa manna dove le madri e i padri incontrano i figli, si ricongiungono i fratelli e le sorelle, i morti e i vivi, ti stupisci della posizione delle lancette dell’orologio. Applaudito e contestato. (…) L’autore di ‘La sottile linea rossa’ e ‘The New World’ è un maestro nella scelta e nella ripresa di dettagli mimici degli attori, frammenti di azione e reazione che porge allo spettatore come essenze di sensibilità, riflessioni, emozioni. Non è che una storia, quella di una famiglia. E la nostra, non è solo una storia, quella di una famiglia?” (Silvio Danese, ‘Nazione- Carlino-Giorno’, 17 maggio 2011)

“Si continua a parlare di Dio, al Festival di Cannes. Ieri ci ha provato il regista più enigmatico del pianeta (solo quattro film in quarant’anni di carriera): l’americano Terrence Malick, bizzarro incrocio tra un genio e un fantasma, sfuggente come Stanley Kubrick, mitico come Greta Garbo. (…) II film si intitola ‘The Tree of Life’, cioè ‘L’albero della vita’, ha per protagonisti Brad Pitt e Sean Penn ed è in gara per la Palma d’oro. Dire che era attesissimo è un eufemismo. Il quotidiano inglese ‘The Guardian’, con compassato understatement, ne parlava così: ‘Si ha la sensazione che Malick, dopo quarant’anni, possa realizzare qualcosa capace di modificare la nostra visione del cinema’. Non è esattamente l’impressione che abbiamo avuto uscendo dalla sala, dove la pellicola è stata sonoramente fischiata dalla platea dei giornalisti, difesa solo da qualche isolato applauso. (…) Malick è davvero l’ultimo dei Mohicani, cioè l’unico regista vivente capace di convincere i magnati di Hollywood a sborsare decine di milioni di dollari per meditazioni liriche che sfuggono a qualsiasi regola della logica, non solo a quelle del commercio. L’idea è quella dell’esistenza come un caleidoscopio in cui la materia frulla uomini e cose e l’uomo (piccolissimo e solo di fronte all’infinito) è atteso da gioie (poche) e dolori (troppi). (…) ‘The Tree of Life’ vola subito alto, (si parte con la citazione di un passo di Giobbe) e cerca di restare in quota appoggiandosi alla musica classica, da Brahms a Bach. Cerca, ma non ci riesce. Si avventura nei territori della metafisica e dell’elegia senza permesso di soggiorno, finisce naufrago nelle terre di mezzo di un sincretismo più superficiale che immaginifico per deragliare in fretta verso derive troppo vaghe per essere almeno affascinanti. (…) Con tutto il rispetto per il genio: questa volta Malick aveva il cinema tra le mani, ma non è riuscito a trattenerlo.” (Marco Dell’Oro, ‘L’Eco di Bergamo’, 17 maggio 2011)

“E’ bello pensare che i Davide sconfiggano sempre i Golia. Che gli onesti lavoratori del cinema possano usare la cinepresa come una fionda per ovviare a un ritardo nei confronti dei mostri sacri. E’ bello ma non sempre accade. A volte i giganti tornano a reclamare il proprio spazio. E Terrence Malick è un gigante pigro che dopo i suoi capolavori degli anni Settanta è sparito in una misteriosa latitanza. Salvo tornare una decina d’anni fa per riprendersi il ruolo che gli compete nella storia del cinema, e che ora lo vede accanto ai più grandi di sempre. Non è per caso, allora, che oggi appaiono tanto piccole e lontane alcune querelle cinefile delle settimane passate. Se un film meritava o no l’Oscar, se l’altro era riuscito o meno. Se quello era cinema, l’ultimo film di Malick non lo è. Si tratta piuttosto di un’esperienza che mette chi la vive in contatto con l’essenza stessa di una forma d’arte. Come andare a teatro a vedere l”Amleto’ recitato da Laurence Olivier. Come entrare nello studio privato di Picasso. E’ presto per dire se ‘The Tree of Life’ è anche un capolavoro assoluto. Di certo si inserisce nel novero delle opere definitive dei grandi registi visionari: ‘Faust’ di Murnau, ‘2001: Odissea nello spazio’ di Kubrick, ‘Solaris’ di Tarkovskji, ‘Inland Empire’ di Lynch, e così via. Opere che quasi sempre pretendono di spiegarci che cos’è la vita stessa. Non è detto, poi, che l’opera definitiva, ossia la più azzardata all’interno di una filmografia, coincida necessariamente con la migliore. Di certo non ci troviamo di fronte a un film perfetto, come d’altronde non lo sono spesso i capolavori. (…) si può legittimamente obiettare che il prologo metafisico e l’epilogo mistico, ancorché tanto meravigliosi da lasciare a bocca aperta, rimangono un po’ giustapposti al cuore del racconto, che invece è «semplicemente» la straordinaria cronaca di un’infanzia, seppur venata dalla magia di uno sguardo innocente. C’è in effetti fra loro un legame più concettuale che drammaturgico. Ma in fondo è proprio in questo contrasto fra microscopico e macroscopico, che Malick gioca la sua sfida. Cercando di dimostrare con acrobazie registiche inusitate, una cinepresa sempre a spalla e un montaggio polifonico a cui solo lui sa dare un’appropriata valenza impressionista – che nella quotidianità di una persona e di una famiglia c’è, in nuce, lo stesso mistero e la stessa grandezza dell’universo. E’ un film che parla della sacralità della vita e dei rapporti umani. Dell’esperienza dell’uomo sulla terra come miracoloso ‘trait d’union’ fra natura e grazia, le dimensioni che la voce narrante all’inizio ci descrive come contrapposte, e che attraverso un viaggio nella memoria dei sentimenti si fondono invece l’una nell’altra. È un film-preghiera rivolto a un Dio che non è necessariamente quello delle religioni monoteiste, anche se più d’un passaggio richiama al concetto cristiano di bontà come via alla trascendenza. Così come non è esclusa una visione più laica, d’impronta psicanalitica: un percorso edipico che porta alla piena consapevolezza di sé, e che sfocia nell’onnicomprensività dell’ego. Dal punto di vista strettamente cinematografico, è il film che avvicina finalmente Malick al suo modello neanche troppo inconfessato: ‘La terra’ di Dovzenko, capolavoro del cinema muto le cui immagini più emblematiche sono state negli anni replicate con inquadrature quasi identiche dal regista americano, e disseminate lungo la sua filmografia (…). Come Dovzenko, Malick cerca di passare dalla materia allo spirito. E in tanti, sconvolgenti momenti del suo film riesce a cogliere l’essenza inesprimibile di questo passaggio. Per farlo, deve ovviamente spingere i mezzi espressivi del cinema al limite delle loro possibilità e anche oltre. Normale, quindi, che a tratti dia l’impressione di perdere il controllo. (…) sembra che vicissitudini produttive abbiano portato a un rimaneggiamento del montaggio complessivo, e si deve probabilmente a ciò un’immagine finale più convenzionale del solito, che ricorda anche una analoga vista nel recente ‘Hereafter’ di Eastwood. Ma è proprio nel paragone con I suoi contemporanei che Malick spicca come un mastodonte. Difficile rendersi conto che registi pure stimati facciano lo stesso mestiere del collega americano, che usino lo stesso strumento per dare forma alle loro idee. Perché è bello pensare che i Davide sconfiggano sempre i Golia. Ma se i Golia sono giganti buoni, che creano anziché distruggere, è giusto accoglierli a braccia aperte, senza farsi intimorire dalla loro immane grandezza.” (Emilio Ranzato, ‘L’Osservatore Romano’, 19 maggio 2011)

“In principio era il cinema, e il cinema era presso Dio. E il Verbo di Terrence Malick e ‘The Tree of Life’ dice moltissimo, pure troppo: una scala infinita, autobiograficamente eretta in una famiglia texana anni 50 per salire su verso il cielo e giù lungo la storia del cosmo, compresi dinosauri e Big Bang. Sulla scorta di Giobbe, si parte dal conflitto Natura e Grazia e si arriva panicamente alla comprensione del tutto, a una novella Città della Gioia, dove Jack (adulto è Sean Penn) potrà riconciliarsi con il padre-padrone Brad Pitt. Ma non c’è narrazione, quanto (di)mostrazione, in un film-mondo che offre risposte ed elude domande: una cosmogonia assoluta, totalitaria e iper-americana, che rivela il senso della vita per il regista, ma per lui solo. Affascinante, ambiziosissimo e irrisolto: è l’Albero del bene e del Malick, in prima persona autoriale. Ed esclusiva.” (Federico Pontiggia, ‘Il Fatto Quotidiano’, 19 maggio 2011) “Non è un fulmine di guerra l’introverso regista texano Terrence Malick, che ha cominciato la carriera nel 1973 e a Cannes ha portato la sua quinta opera. Una ogni sei e mezzo dunque. Tutte noiosissime. Tanto è vero che la critica snob ne va pazza. Dicono che non ami farsi fotografare, di sicuro non concede interviste e la leggenda vuole che il suo studio sia precluso perfino alla moglie. Chissà se alla poveretta verrà risparmiata la visione del suo ultimo film, ‘The Tree of Life’, che non sarebbe neanche brutto se non fosse infestato da due interminabili e incomprensibili parentesi filosofeggianti sulla nascita del mondo e sul senso della vita. Con apparizioni di dinosauri, colate di lava, funghi atomici, deserti, spiagge, montagne, il tutto inondato da funeree musiche sacre, roba insomma da far scappare Piero Angela. Accanto a questa doppia razione di fuffa d’autore, si snoda un dramma familiare intenso e crudele, ambientato negli anni Cinquanta a Waco, guarda caso, città natale di Malick. (…) Avvertenza: non fidatevi delle locandine. Sean Penn, spacciato come protagonista, appare dieci minuti scarsi. Sempre a naso in su tra i grattacieli, ai giorni nostri. Forse cerca un altro film.” (Massimo Bertarelli, ‘Il Giornale’, 20 maggio 2011)

Emanuele Severino in Il Corriere della Sera:

…Il protagonista del film è un ragazzo che ama, anche morbosamente, la madre, dolcissima, e patisce l’ esteriorità della fede religiosa e il carattere soffocante e a volte brutale del padre, e perde il fratello e non vede la ragione di esser buono quando Dio è cattivo; ma infine, fattosi adulto, varca la porta del dubbio e tra sogno e veglia si riconcilia con un mondo dove la madre offre a Dio il proprio figlio, i morti risorgono e tutti si amano. Ma allora – vien fatto di dire – che la fede sia una lotta continua col dubbio, la disperazione, il cedimento al peccato, il cristianesimo lo sa da duemila anni. La tradizione religiosa americana preferisce chiudere presto i conti con il dramma della fede: predilige la compostezza, dove però, il dramma, più che risolto è tenuto via dallo sguardo. In tal modo, lo scarto del film di Malick rispetto a quella tradizione si ridurrebbe a ben poco, cioè alla coscienza che quel dramma esiste. Sarebbe dunque un film edificante. Che però parlerebbe un linguaggio che per un verso è d’ avanguardia ed enigmatico, per l’ altro lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi ai tratti più toccanti dell’ amore e a una natura splendida e sovrana. La forma lussureggiante e innovativa dell’ immagine non farebbe allora che mascherare il contenuto edificante, cioè l’ aspetto scontato del film. Però l’ interpretazione che abbiamo sin qui prospettato non rende giustizia a quell’ immagine. La quale non esprime l’ indifferenza della natura per l’ uomo, ma ha il carattere festivo di cui si parlava all’ inizio. Che il contenuto «americano» del film di Malick sia edificante e scontato non ha più importanza del fatto che i contenuti dell’ antica tragedia greca sono una serie di miti che tutti gli spettatori conoscevano dall’ infanzia, ben prima di recarsi al teatro dove se li vedevano riproposti. Sono i miti che parlano della vita, dunque della morte. Prometeo, Edipo, la guerra di Troia. Ma come li riproponeva il teatro greco? Riproducendo l’ immagine festiva che solleva gli spettatori sopra la morte: l’ immagine che è sentita più reale e più rassicurante dello stesso carattere salvifico del mito che in essa viene riproposto. E come il mito greco continua a salvare l’ uomo evoluto della polis solamente quando esso si trasfigura nell’ immagine festiva del teatro, così il mito cristiano continua a salvare il credente dell’ Europa moderna soltanto quando anch’ esso si esprime nell’ immagine festiva della Divina Commedia, nella Cappella Sistina, nella Passione secondo San Matteo: soltanto nella fusione di rito e arte. Nella minore dimensione del cinema avviene qualcosa di analogo. In questo diverso senso, L’ albero della vita è davvero un’ opera «edificante» (aedes facere): «costruisce la casa» dell’ immagine festiva e salvifica.

da: http://dizionaripiu.zanichelli.it/film-del-giorno/

The Tree of LifeThe Tree of LifeUSA 2011GENERE: Dramm. DURATA: 138′ VISIONE CONSIGLIATA: TCRITICA: 4 PUBBLICO: 3REGIA: Terrence MalickATTORI: Brad Pitt, Jessica Chastain, Sean Penn, Hunter McCracken, Fiona Shaw, Laramie Eppler
Palma d’oro a Cannes 2011. Tre film in uno, e già qui potrebbe cominciare la disputa tra chi ritiene il 5° film di Malick un capolavoro, chi a Cannes l’ha fischiato e chi l’accusa di megalomania in bilico tra il sacro metafisico e la banalità New Age. Il meglio sta nella lunga storia della famiglia piccolo borghese O’Brien di Waco (Texas) negli anni ’50 – genitori e 3 maschietti – che, però, comincia con la tragica notizia della morte del secondogenito 19enne. L’altro film è breve e fa perno sul primogenito Jack che 30 anni dopo fa l’architetto a New York tra vertiginose prospettive dei grattacieli. Tra i due c’è il 3° film, caleidoscopio cosmico-poetico di cinema espanso che condensa miliardi di anni di un pianeta dove interagiscono i 4 elementi primordiali (fuoco, aria, acqua, terra) sino al Big Bang e ai dinosauri. Quanti mesi il solitario Malick ha dedicato alla postproduzione insieme a collaboratori prestigiosi (uno fra tutti: fotografia del messicano Emmanuel Lubezki), 8 produttori (3 donne), 5 montatori, 34 brani musicali di 9 compositori famosi (da Bach a Berlioz e Gorecki), passando dal biblico Giobbe a Freud/Jung, dalla violenza alla grazia, dall’anima all’inconscio, da Dio alla Natura? Potente e sconnesso, è un film-mondo, totale se non totalitario, fragoroso ma anche sottile. Varrebbe la pena di vederlo (al cinema più che in casa), soltanto per la storia degli O’Brien, per la fulva, lentigginosa, aerea Chastain così capace di non interferire mai con i sistemi didattici del marito (ottimo Pitt), ma non di nascondere la sua forza ribelle: il più emozionante personaggio di madre visto sul grande schermo nei primi 2000

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