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rocesso di integrazione è stato promosso con forza da un piccolo gruppo di statisti lungimiranti che praticavano un processo di ingegneria sociale a tassello, così definito da Karl Popper. Ben sapendo che la perfezione è irraggiungibile, i padri fondatori dell’Europa si erano posti obiettivi limitati e scadenze precise, per poi mobilitare la volontà politica affinché venisse compiuto un piccolo passo in avanti. Erano tuttavia consapevoli che l’inadeguatezza di quel piccolo passo sarebbe stata subito palese e avrebbe richiesto un successivo sforzo. Il processo si è evoluto, alimentato dai propri successi, proprio come una bolla finanziaria. È così che la Comunità per il carbone e l’acciaio gradualmente si è trasformata nell’Unione europea, un passo alla volta.
La Francia e la Germania sono sempre stati i maggiori sostenitori dell’iniziativa. Quando l’impero sovietico cominciò a vacillare, i leader tedeschi, rendendosi conto che la riunificazione delle due Germanie era possibile solo nel contesto di un’Europa ancora più unita, si sono mostrati pronti a ogni sacrificio pur di ottenerla. Nel corso delle trattative, hanno sempre concesso qualcosa di più e accettato qualcosa di meno rispetto agli altri, facilitando così gli accordi. In quel periodo, gli statisti tedeschi affermavano che la Germania non aveva una politica estera indipendente, al di fuori di una politica europea. E questo ha prodotto un’enorme accelerazione del processo di integrazione, culminato con la firma del Trattato di Maastricht nel 1992 e con l’introduzione dell’euro nel 2002.
Ma il Trattato di Maastricht era gravato da numerosi difetti sin dal suo concepimento. Gli architetti stessi dell’euro riconoscevano che si trattava di una costruzione incompleta: la moneta unica era dotata di una banca centrale comune ma mancava un comune ministero del tesoro in grado di emettere titoli condivisi da tutti gli stati membri. Gli Eurobond incontrano ancora oggi forti resistenze in Germania e in altri paesi creditori. Gli architetti dell’euro erano convinti, tuttavia, che nel momento della necessità tutti gli stati membri avrebbero espresso la volontà di varare le misure necessarie verso un’unione politica. Dopo tutto, così è nata l’Unione europea. Sfortunatamente, l’euro aveva però molte altre pecche, di cui né gli architetti né gli stati membri erano pienamente a conoscenza. Queste sono emerse nel corso della crisi finanziaria del 2007-8, che ha avviato il processo di sfaldamento.
Nella settimana successiva alla bancarotta di Lehman Brothers, i mercati finanziari globali crollarono e furono mantenuti in vita artificialmente. Per far questo, il credito sovrano (sotto forma di garanzie della banca centrale e deficit di bilancio) è andato a rimpiazzare il credito delle istituzioni finanziarie che non era più accettato dai mercati. Proprio il ruolo centrale che è stato addossato al credito sovrano ha svelato un difetto dell’euro, fino ad allora rimasto nascosto e non ancora adeguatamente riconosciuto. Nel trasferire alla Banca centrale europea quello che era stato in passato il loro diritto a stampare moneta, gli stati membri hanno esposto il loro credito sovrano al rischio di fallimento o default. I paesi sviluppati che controllano la loro moneta non hanno alcun motivo di fallire, possono sempre stampare altri soldi. La loro valuta perderà di valore, ma il rischio di fallimento è praticamente inesistente. In contrasto, i paesi meno sviluppati che accettano prestiti in valuta straniera devono pagare premi che riflettono il rischio di default. Ad aggravare la situazione, i mercati finanziari possono realmente causare il fallimento di questi paesi attraverso manipolazioni speculative dei mercati – vendita a breve dei loro titoli per spingere ancora più in alto il costo dei prestiti, aggravando così i timori di un fallimento imminente.
Quando fu introdotto l’euro, i titoli di stato erano considerati privi di rischi. I regolatori consentivano alle banche di acquistare quantitativi illimitati di titoli di stato senza mettere da parte alcun capitale di garanzia, e la Banca centrale europea accettava tutti i titoli di stato con la discount window (possibilità per le banche di chiedere in prestito direttamente il denaro alla banca centrale a tassi di favore) a pari condizioni. Così facendo, era vantaggioso per le banche commerciali accumulare i titoli dei paesi membri più deboli, che pagavano tassi di interessi leggermente superiori, per poter guadagnare qualche punto base in più.
In seguito alla crisi di Lehman Brothers, Angela Merkel dichiarò che la garanzia che a nessun’altra importante istituzione finanziaria, interna al sistema, sarebbe stato consentito di fallire, doveva essere offerta da ciascun paese separatamente, e non dall’Unione europea in un’azione congiunta. È stata questa la prima picconata in un processo di disintegrazione che minaccia in questo momento di distruggere l’Unione europea.
I mercati finanziari hanno impiegato più di un anno per accorgersi delle implicazioni della dichiarazione della cancelliera Merkel, a dimostrazione che operano con conoscenze lungi dall’essere complete ed esaurienti. Solo nel dicembre del 2009, quando il governo greco appena eletto dichiarò che il precedente governo aveva truccato i conti e che il deficit dello stato superava il 15 percento del PIL, i mercati finanziari si sono resi conto che i titoli di stato, fino ad allora considerati privi di rischi, erano invece gravati da rischi notevoli ed erano esposti al default. Successivamente a questa scoperta, i premi di rischio (sotto forma di rendimenti maggiori che i governi erano costretti ad offrire per vendere i loro titoli, il cosiddetto spread) sono cresciuti in maniera drammatica. E questo a sua volta ha spinto le banche commerciali, i cui bilanci erano carichi di quei titoli, sull’orlo dell’insolvenza. La situazione ha innescato la crisi del debito sovrano e la crisi bancaria, che sono collegate tra di loro e si alimentano a vicenda. Sono questi i due fattori principali della crisi che l’Europa si trova oggi ad affrontare.
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