Luca Ricolfi, Il federalismo funziona se responsabile, da La Stampa 24 settembre 2012

la storia della parola federalismo è esemplare. C’è stato un momento, intorno alla prima metà degli Anni 90, in cui la parola federalismo è diventata politicamente redditizia, e da allora sono diventati tutti federalisti (se non sbaglio qualcosa del genere sta succedendo ora con la parola «liberale»). E’ stata una disgrazia, perché questa sorta di completa liberalizzazione del significato della parola ha reso il dibattuto politico estremamente confuso, facendo perdere di vista la sostanza del problema. E persino la Lega Nord, che del federalismo è stata la principale sostenitrice, ha finito per difendere almeno tre versioni di esso, radicalmente diverse l’una dall’altra, rendendo ancora più confuso un dibattito che già per conto suo non brillava per l’uso di idee chiare e distinte.

Andiamo allora al succo del problema. Se per federalismo si intende quello che è stato sperimentato dal 2001 a oggi, prima con la riforma voluta dal centrosinistra, poi con la riforma voluta da quasi tutti (Lega, Pdl e Pd), non si può che aderire in pieno ai dubbi sollevati da Franco Bruni. Ma non perché quel federalismo non ha funzionato, bensì perché non poteva funzionare. Quel federalismo aveva (anzi ha: è tuttora in vigore) tre difetti capitali: un ruolo esorbitante della mediazione politica, tempi di attuazione lunghissimi (2020), pochissima responsabilità fiscale dei territori. E’ ingenuo pensare che i cittadini controllino, se i politici possono coccolarli spendendo, e persino riceverne la solidarietà quando vanno a Roma per esigere maggiori trasferimenti. I cittadini di Palermo e di Catania, i cui debiti sono stati ripianati dal governo centrale, si sarebbero accorti facilmente delle spese pazze dei loro governanti se la legge avesse obbligato gli amministratori che hanno fatto quei debiti a ripagarli con risorse dei territori in cui quei soldi sono stati spesi, ovvero vendendo beni pubblici e aumentando le tasse. E il discorso, sia ben chiaro, non vale solo per le più dissennate amministrazioni del Mezzogiorno ma anche per diverse amministrazioni del Centro-Nord. Compresa quella di Torino, che è uno dei Comuni più indebitati d’Italia: solo se le amministrazioni locali fossero state obbligate a finanziare quei progetti con risorse di Torino noi cittadini avremmo avuto effettivamente l’opportunità di esprimerci, scegliendo fra rinunciare alle opere e al loro indotto, o pagarle con i nostri soldi e i beni pubblici della nostra città. Facendo debito, la politica risolve un suo problema, e ne crea uno a noi: non deve chiedere il permesso di spendere agli elettori di oggi, e sposta il fardello sulle generazioni future.

Quindi, tornando al problema federalismosì federalismo-no, il nodo è molto chiaro: solo se è altamente responsabilista, il federalismo può funzionare. Se per ragioni puramente politiche lo si annacqua con il principio opposto, permettendo a intere porzioni di territorio di ricevere molto di più di quanto danno, allora chiamarlo federalismo è un abuso di linguaggio, un omaggio al plumbeo conformismo per cui ci sentiamo obbligati tutti a proclamarci federalisti, anche quando non lo siamo affatto. La Lega stessa, che è stata federalista fino al 2008, ha finito per smarrire del tutto il senso della sua battaglia quando, a partire dal 2009, ha accettato ogni sorta di compromesso pur di salvare faccia e poltrone: la faccia dei suoi dirigenti, desiderosi di presentarsi all’elettorato con una vittoria in tasca, le poltrone dei suoi amministratori locali, giustamente terrorizzati che un federalismo rigoroso lasciasse loro meno quattrini da spendere.

La mia conclusione è quindi netta, anche se un po’ amara. Se il federalismo è vero federalismo, non può piacere al ceto politico. E se piace al ceto politico, è perché non è vero federalismo, ma federalismo nominale.

da La Stampa – Il federalismo funziona se responsabile.

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