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Il problema di decidere riguarda tutta la classe dirigente moderata di quel partito: il segretario Alfano, in primo luogo, ma via via tutti gli altri: gli Schifani, i Frattini, le Gelmini, i Quagliariello, i Cicchitto, i Sacconi e molti altri. Sono loro che rischiano di essere scompaginati dall’ultima carica berlusconiana. Ex democristiani, ex socialisti, qualche laico: erano gli esponenti di quel «pentapartito» ideale che Berlusconi aveva raccolto intorno a sé negli anni Novanta. Oggi sono davanti al bivio: o stanno con il vecchio leader e lo seguono a occhi chiusi o perdono tutto.
Lo stallo del centrodestra infatti è solo apparente perché in realtà Berlusconi sembra avere le idee chiare su quale strada imboccare. È la stessa che da anni il suo temperamento gli suggerisce: nessun accordo sulla riforma elettorale; nessuna intesa con il governo sulle date delle elezioni (a meno che Monti non accetti il diktat: voto congiunto per le regionali e le politiche in febbraio o ai primi di marzo, ma in ogni caso accorpato); forte irritazione, a dir poco, sulla norma governativa che prevede i casi in cui non si è candidabili.
In sostanza Berlusconi ripete lo schema del ’98, quando buttò all’aria la commissione Bicamerale. E i suoi fedeli ripetono la parola d’ordine: «Lo spirito del ’94 e di Forza Italia non è morto». E qui, in questa illusione di ricreare per magìa lo slancio di diciotto anni fa, c’è tutto l’equivoco in cui si sta consumando il Pdl.
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