“La rivoluzione siriana è morta”, dice il giorno dopo il ritorno a casa Domenico Quirico, inviato de La Stampa prigioniero 5 mesi in Siria. Ma l’intervista ad Alessandro Baracchini è anche riflessione sulla brutalità della guerra, sulla disumanità della jahad islamista, testimonianza di un cronista che ritrova la libertà dei piccoli gesti
Domenico Quirico è stato liberato. Dopo cinque mesi di prigionia, il giornalista della Stampa sequestrato in Siria è tornato in Italia. Sorridente e con la barba lunga, Quirico è atterrato ieri sera a Ciampino, dove è stato accolto dal ministro degli Esteri, Emma Bonino, il capo dell’Unità di crisi, Claudio Taffuri, e il segretario generale della Farnesina, Michele Valensise. La notizia è stata diffusa ieri su Twitter dal direttore Mario Calabresi e subito dopo confermata dalla Farnesina con la frase: “Domenico Quirico libero”.
stralci da “Io, tra bombe, fughe, umiliazioni“, in La Stampa 10 settembre 2013
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L’emiro Abu Omar
L’ideatore e capo del gruppo che ci teneva prigionieri era un sedicente emiro che si chiama, anzi, si fa chiamare, Abu Omar, un soprannome. Ha formato la sua brigata reclutando gente della zona, più banditi che islamisti o rivoluzionari. Questo Abu Omar copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue attività illecite, e collabora con il gruppo che successivamente ci ha preso in carico, Al Faruk. Al Faruk è una brigata molto nota della rivoluzione siriana, fa parte del Consiglio nazionale siriano, e i suoi rappresentanti incontrano i governi europei. È stato creata da un generale ribelle che ha arruolato combattenti fra la gente più povera di Homs, fra i più dimenticati dalla mafia di regime. L’Occidente si fida di loro ma ho imparato a mie spese che si tratta anche di un gruppo che rappresenta un fenomeno nuovo e allarmante della rivoluzione: l’emergere di gruppi banditeschi di tipo somalo, che approfittano della vernice islamista e del contesto della rivoluzione per controllare parte del territorio, per taglieggiare la popolazione, fare sequestri e riempirsi le saccocce di denaro.
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La telefonata
Dopo il primo giorno di marcia questo Abu Omar era seduto come un pascià sotto un albero circondato dalla sua piccola corte di guerriglieri. Mi ha chiamato perché voleva che mi sedessi accanto a lui, voleva fingere di essere nostro amico per ingannare un po’ anche la gente che era lì intorno e che si chiedeva chi fossero questi due occidentali malvestiti e distrutti dopo due mesi di prigionia. Gli ho chiesto il telefono per chiamare casa, dicendo che i miei probabilmente pensavano che io fossi morto e che stava distruggendo la mia vita, la mia famiglia. Lui rideva. E mi mostrava il suo telefonino mentendo e dicendo che non c’era campo, che non si poteva telefonare. Non era vero. In quel momento un soldato dell’Esercito siriano libero, ferito alle gambe, ha tirato fuori dalla tasca dei suoi pantaloni un telefonino e me l’ha dato davanti a lui. È stato l’unico gesto di pietà umana che ho ricevuto nei 152 giorni. Nessuno ha avuto verso di me una manifestazione di quella che noi chiamiamo pietà, misericordia, compassione. Persino i vecchi e i bambini hanno cercato di farci del male. Lo dico forse in termini un po’ troppo etici, ma veramente in Siria io ho incontrato il paese del Male. Sono riuscito a chiamare a casa solamente per 20 secondi, dopo quell’urlo disperato che ho sentito dall’altra parte, la linea è caduta.
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La prigionia
Ci tenevano come animali, costretti in piccole stanze con le finestre chiuse nonostante il terribile caldo, gettati su dei pagliericci, ci davano da mangiare i resti dei loro pasti. Nella mia vita, nel mondo occidentale, non ho mai provato cos’è l’umiliazione quotidiana nelle cose semplici come il non poter andare alla toilette, il dover chiedere tutto e sentirsi sempre dire no. Credo che c’era una soddisfazione evidente in loro nel vedere l’occidentale ricco ridotto come un mendicante, come un povero.
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Ridotto a merce Ci siamo nascosti in una specie di rudere nella campagna. Abbiamo cercato di attraversare il confine di notte, ma abbiamo scoperto che c’erano i campi minati. Siamo arrivati fino al filo spinato e siamo dovuti tornare indietro. Abbiamo fermato un’auto col kalashnikov, abbiamo chiesto al guidatore di portarci in un villaggiolì vicino. Ma c’era un posto di blocco.Ci hanno sparato, fermato e riportato verso la casa dove ci tenevano e ci hanno consegnato ai carcerieri per punirci. Ci hanno chiuso in una specie di sgabuzzino con le mani legate dietro la schiena, quasi incaprettati e ci hanno tenuti così per tre giorni. Il nostro valore era quello di una mercanzia. Non si può distruggere la mercanzia, se no si rischia di non ottenere più il suo prezzo. E ti senti veramente come un sacco di grano, un oggetto che vale in quanto vendibile. Ti possono prendere a calci ma non ti possono ammazzare perché se ti guastano troppo, o definitivamente, non ti possono più vendere. È l’orribile legge dell’ostaggio.
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I carcerieri Erano di un gruppo che si professa islamista ma in realtà è formato da giovani sbandati che sono entrati nella rivoluzione perché la rivoluzione oramai è di questi gruppi che sono a metà tra il banditismo e il fanatismo. Seguono chi gli promette un futuro, gli dà le armi, la forza, gli versa il denaro per comprarsi i telefonini, computer, vestiti. Le Adidas sono estremamente diffuse in Siria, tutti hanno magliette Adidas, scarpe Adidas, sembra una specie di sponsorizzazione. Questi ragazzi vivono una vita di maschi, senza femmine, comunitaria in cui non fanno nulla e passano la giornata sdraiati sui materassi a bere mate. Credevo fosse una cosa sudamericana invece è estremamente diffuso in alcune zone della Siria. E fumano Marlboro originali americane che fanno arrivare dalla Turchia. Io sembravo più islamista di molti di loro perché non fumo e non bevo. E guardavano la televisione ma l’informazione era l’ultima cosa che gli interessava. Solo filmetti vagamente osé della televisione del Qatar o vecchi film egiziani sentimentali degli anni 50 in bianco e nero o gare di lotta, il wrestling americano oppure una terribile forma di lotta praticata nei paesi arabi in cui tutto è permesso…
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Le finte esecuzioni
Per due volte hanno finto di mettermi al muro. Eravamo dalle parti di Al Qusayr. Uno si è avvicinato con la pistola e mi ha fatto vedere che la pistola era carica poi mi ha detto di mettere la testa contro al muro, mi ha avvicinato la pistola alla tempia. Lunghi momenti in cui ti vergogni… io mi ricordo la finta esecuzione di Dostoevskij… ti viene una rabbia perla paura che hai, senti che l’uomo che è vicino a te respira, trasuda il piacere di avere nelle sue mani un altro uomo e sentire che tu hai paura, e ti viene la rabbia perché tu hai paura. È un po’ come quando i bambini, che sono spesso terribilmente crudeli, strappano la coda alla lucertola o le zampe alle formiche. La stessa ferocia terribile.
Le trattative Per ridere di noi i nostri carcerieri ogni tanto ci dicevano «due o tre giorni, una settimana, e poi via liberi in Italia» per vedere poi la nostra disperazione… perché aggiungevano una parola… Inshallah… che è il loro modo di mentire senza avere il senso di mentire, inshallah, è successo… Dicevano continuamente «bukrah» che vuole dire domani… poi l’indomani non partiva nessuno
