Visto il 13 ottobre 2013 al cinema Astra di Como:
Sacro Gra (Italia, 2013, 93 minuti), un documentario di Gianfranco Rosi
Intorno al Grande raccordo anulare di Roma (Gra) si svolgono diverse esistenze.
Un nobile piemontese decaduto che vive con la figlia in un appartamento in periferia (accanto a un dj indiano),
un pescatore d’anguille,
un esperto botanico che combatte per la sopravvivenza delle palme,
un paramedico con una madre affetta da demenza senile,
delle prostitute transessuali,
un nobile che vive in un castello affittato come set per fotoromanzi,
alcuni fedeli che osservano un’eclisse al Divino Amore attribuendola alla Madonna e delle ragazze immagine di un bar.
NdA: chi aveva visto Below sea level al festival Il cinema italiano qualche anno fa, riconoscerà lo stesso approccio che portò Rosi jr. a riprendere i diseredati che vivono in case pullman nel deserto americano. Della serie “noi lo avevamo scoperto prima del Leone d’oro”…
Autore: Roberto Escobar – Testata: L’espresso
Sono esposte all’attacco, indifese, dice un meticoloso entomologo a proposito delle palme affidate alle sue cure da qualche parte lungo il Gra, il Grande raccordo anulare di Roma. Invase da un insetto vorace, le piante sono consumate dal suo vitalismo. Per quanto l’uomo ne catturi le voci con un piccolo microfono, e per quanto contro di loro prepari misteriosi, velenosissimi intrugli, a centinaia e a migliaia i parassiti procedono in un lavorio che incide e scava nel legno, senza altro scopo che se stesso. Così fanno gli uomini e le donne le cui voci e le cui immagini Gianfranco Rosi cattura in “Sacro GRA” (Italia e Francia, 2013, 93′). È davvero un documentario, quello di Rosi? Prima ancora, che cosa c’è in un documentario se non cinema, cioè prospettiva e interpretazione? In ogni caso, come accade nei documentari migliori, in “Sacro GRA” c’è un grande film di finzione. Ossia, c’è la capacità di raccontare storie che sembrino stare già tutte dentro la realtà delle cose e degli esseri umani. Ma a inventarle, quelle storie, è la macchina da presa, insieme con la visione del mondo di Rosi e con la sua poetica. Roma non si vede mai, in “Sacro GRA”. Solo, è evocata da un forbito, vecchio signore che abita al di là di ogni periferia, a ridosso dell’aeroporto. Da qui si vede il Cupolone, dice alla figlia guardando da una finestra che si apre sul buio della notte. Poi, le sue parole lo portano altrove e lontano, immerso nel piacere di stare nel mondo e nella sua bellezza. Come lui, anche le altre donne e gli altri uomini raccontati da Rosi stanno al di là dei margini della città, in uno sterminato non-luogo che si offre loro vuoto di confini e di senso. In questo vuoto, in questa materia informe, incide e scava il loro desiderio di vita.Ci si perde, nell’intrico vitale delle loro storie: nella saggezza antica di un pescatore di anguille, nella fatica e nell’umanità di un infermiere che con la sua autoambulanza ogni giorno percorre la grande strada ad anello, nelle elucubrazioni araldiche di un nobile decaduto, nella messa in scena improbabile di un regista di fotoromanzi. Dove vanno, e perché, queste vite che in “Sacro GRA”diventano racconti? E quante sono quelle che Rosi ha solo intravisto, oltre ogni periferia? A centinaia, a migliaia invadono la sconfinatezza di un non-luogo che mai inizia e mai finisce, e che si offre loro esposto e indifeso. Alla macchina da presa non resta che immaginarsene e suggerircene il lavorio continuo, senza altro scopo che se stesso
vai a : intervista a Gianfranco Rosi i Pane quotidiano (Rai 3) dell’1 ottobre 2013

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