Chi non ha la fortuna di possedere un grande patrimonio è costretto, in qualche modo, a lavorare per guadagnarsi da vivere. Gran parte degli umani sono incatenati a un lavoro che svolgono in un posto ben determinato, legati a orari fissi, e spesso in compagnia di colleghi o a contatto di altri umani come loro. Qualcun altro – non so se più fortunato – può esercitare la libera professione e gestire meglio i propri tempi di lavoro. Altri ancora, invece, lavorano a casa propria, rinchiusi tra le proprie quattro mura, e non hanno nemmeno necessità di condividere una coabitazione forzata con colleghi o di dover comunicare con terzi indesiderati. Io conosco sia la prima situazione che quest’ultima, ma nessuna delle due è esclusiva. L’ultima è tipica, per esempio, del traduttore letterario che, diversamente dal traduttore di singoli testi su commissione e a breve scadenza, ha tempi e volumi più lunghi: al di là del contatto iniziale con l’editore, per il resto del tempo (un mese, due mesi, tre mesi) è da solo con il suo testo. A me è capitato spesso di “invidiare” quelli che fanno solo questo per mantenersi. Lo dico soprattutto quando mi vengono a noia i contatti forzati e gli obblighi del lavoro d’ufficio e penso che chi, invece, può starsene in casa e lavorare in mutande senza mai dover aprire bocca sia più fortunato di me. Lo dicevo spesso, in passato, a M.H., il quale “invidiava” invece la garanzia dello stipendio a fine mese che ricevevo io. In un certo senso è come se ai due estremi di una retta ci fossero da un lato la sicurezza e dall’altro la libertà
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