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Quando la sinistra parla di «politiche per la crisi», parla sempre e solo di «difesa»: difesa del posto di lavoro, difesa delle pensioni, difesa dei diritti. Non di creazione di opportunità, se non in termini generici e vaghi. Questo linguaggio è figlio di un’impostazione conservatrice e anti-capitalista, che pone la sinistra italiana (e buona parte del Paese) su un pianeta ideologico arretrato rispetto alle altre nazioni occidentali. Nel «pianeta Italia» la disuguaglianza viene oggi affrontata basandosi su principi quasi feudali.
Non è l’impresa che crea benessere, ma il lavoro (art. 1 della Costituzione). Il lavoro esiste indipendentemente dal capitale, dall’impresa, dal consumo. Interessa poco il fatto che senza imprese e consumatori che comprano i loro prodotti non ci sono lavoratori. Il lavoro, inteso come posto di lavoro, è un diritto inalienabile dell’uomo, come la vita. Corollario: tutti i posti di lavoro vanno difesi. Dunque se sei fortunato e vai in pensione quando sei ancora molto giovane, è un tuo diritto. Lavori in miniera nel Sulcis? Un altro diritto che va difeso, anche se difenderlo costa dieci volte il tuo stipendio. Inoltre, come la vita, il lavoro di chi oggi ha un impiego è un bene molto più importante dell’occupazione potenziale di chi un lavoro non ce l’ha. In un ospedale, i vivi hanno la precedenza sui morti. È lo stesso atteggiamento del sindacato, di fronte a occupati e disoccupati. È così che si crea l’«apartheid» di cui parla Pietro Ichino tra i dodici milioni di intoccabili (assunti a tempo indeterminato) e i nove milioni di «precari» e dipendenti delle piccole imprese.
La sinistra italiana non ha capito che è il mercato a creare il lavoro e che il compito dello Stato non è dichiarare che lo status quo
è un diritto e congelarlo, ma diminuire la disuguaglianza di opportunità favorendo meritocrazia, concorrenza, scuola di qualità. Se il centrodestra è sempre stato il protettore dei grandi privilegi, la sinistra si è trasformata in protettrice di quelli piccoli.
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