LUANA, di Annalena Benini, Il Foglio, 10 mag 21

Luana D’Orazio era così bella che qualunque canzone cantasse, in auto con le amiche, a casa con la madre e il figlio, al mare con il fidanzato, quella canzone diventava più bella. Faceva l’apprendista operaia a mille euro al mese in un’azienda tessile ed è stata uccisa dalla macchina a cui stava lavorando, impigliata, incastrata, risucchiata in pochi secondi. Tutti noi davanti allo strazio della sua giovinezza e delle sue foto su Instagram ci siamo accorti che gli incidenti mortali sul lavoro dall’inizio di quest’anno sono stati 185. In quattro mesi. Sono morti in questo 2021 anche coetanei di Luana, ma lei ci è arrivata dritta al cuore con quel sorriso pieno di fiducia nella fortuna di essere al mondo. C’è sempre qualcosa di indecente nel comporre frasi sulle tragedie e sull’ingiustizia insopportabile delle tragedie, ma la vita di Luana, così come voleva mostrarla ai suoi amici e al mondo, era totalmente lontana dall’idea di ingiustizia. I motivi per cui parliamo di lei con sgomento e commozione, una giovanissima operaia che aveva il turno delle sei del mattino, una giovanissima madre rimasta incinta a 17 anni e costretta a vivere con i genitori, non fanno parte del suo racconto, certo non in termini di fatica né di sfortuna.
La sua vita sognata, la sua vita gioiosa, e anche la sua vera vita, era bella. Dormiva nel lettone con sua madre e suo figlio, e nell’altra stanza dormiva suo padre con il fratello di Luana, disabile. Si era convinta di avere la cellulite e sua madre ogni sera le spalmava la crema. Era splendente e infatti suo figlio le ha detto, poco prima che lei uscisse di casa: voglio vedere la mia mamma splendente. Gli faceva il solletico e lui rideva, gli cantava le canzoni, guardavano la tivù insieme, andavano al mare. Aveva fatto la comparsa in un film di Pieraccioni, ma non ci sperava più di tanto in quella strada. Era innamorata di un ragazzo e anche lui l’amava e voleva sposarla, andare a vivere con lei e suo figlio una volta finite le rate dell’automobile.
Luana si lisciava i capelli già lisci con la piastra e usciva di casa, ballava, abbracciava, scherzava, si faceva le foto davanti allo specchio, veniva sempre bene ma non era convinta, però non aveva paura di niente e aveva imparato a fare la manicure e a truccare le spose. Era andata a ballare con quel ragazzo a Montecatini un anno e mezzo fa e mentre ballavano lui le aveva chiesto: ma io e te che siamo? Lei aveva risposto alzando le spalle: boh. E lui allora: insomma, sì o no? E lei aveva detto: sì. Nell’intervista di Elvira Serra sul Corriere della Sera questo ragazzo ha detto: a lei bastava poco per essere felice.
Luana era felice. Tutto quello che ci distrugge, adesso, non è più l’ingiustizia di quel lavoro o di quella condizione, né l’ingiustizia di quella fatica che l’ha portata via forse per una saracinesca di sicurezza rimossa. Ma è la felicità interrotta, finita, la felicità impigliata in un ingranaggio. A quella macchina lavorava anche la titolare dell’azienda, e anche suo marito e suo figlio. “La mia non è quindi solo la solidarietà di un datore di lavoro ma anche di una compagna di lavoro”, ha detto questa signora che difficilmente troverà di nuovo la felicità. Non è una storia indecente di oppressi e di oppressori, ma è la storia indecente di una ragazza uccisa a un passo dal culmine della felicità: una vita tranquilla, sentirsi amata sulla terra. La nostra indecenza è avere avuto bisogno di quella bellezza, di quella felicità, per accorgerci che muoiono due persone al giorno, come Luana.
Annalena Benini

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