La Costituzione della Repubblica italiana, all’articolo XII, stabilisce che “è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.
Questa norma, che è una disposizione transitoria e finale, è stata attuata dalla legge Scelba del 1952, che ha introdotto nel codice penale italiano il reato di apologia del fascismo.
L’articolo 4 della legge Scelba definisce l’apologia del fascismo come “chiunque pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”. La pena prevista è la reclusione da sei mesi a due anni e la multa da 206 a 516 euro.
La giurisprudenza ha chiarito che l’apologia del fascismo non si configura con una semplice difesa elogiativa del regime fascista, ma richiede una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista. In particolare, la Cassazione ha stabilito che l’apologia del fascismo si configura quando sussistono i seguenti elementi:
- la natura pubblica dell’esaltazione, ovvero la sua diffusione a un numero indeterminato di persone;
- la specificità dell’esaltazione, ovvero il riferimento a specifici esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo;
- la finalità antidemocratica dell’esaltazione, ovvero la sua idoneità a promuovere la violenza e la discriminazione.
La giurisprudenza ha inoltre chiarito che l’apologia del fascismo può essere commessa anche attraverso l’uso di simboli o slogan fascisti.
La norma sull’apologia del fascismo è stata oggetto di un recente dibattito, in seguito a una serie di episodi di diffusione di propaganda fascista sui social media. In particolare, alcuni hanno sostenuto che la norma sarebbe troppo restrittiva e che limiterebbe la libertà di espressione. Altri, invece, hanno sostenuto che la norma è necessaria per tutelare la democrazia e la memoria delle vittime del fascismo.
Ad oggi, la norma sull’apologia del fascismo è ancora in vigore e non è stata oggetto di modifiche.
