da: https://www.segnalo.it/TRACCE/CIT/CIT.htm
POLGAR A., PICCOLE STORIE SENZA MORALE,
ADELPHI, 1994, p. 29-31
Ora che il bambino è venuto al mondo, tutti, tranne il neonato, sono colmi di gioia. Parenti e conoscenti si volgono
sorridendo all’omuncolo grinzoso, rosso come un tizzone, che dovrebbe risvegliare piuttosto un sentimento di pietà
perché nell’attimo stesso in cui è entrato nella vita è anche entrato nella morte, e ogni secondo che lo allontana
dall’istante del suo principio lo avvicina all’istante della sua fine. Ancora immortale nove mesi prima come un’idea
eterna, come un principio divino, egli è già ora in balìa della morte; del capitolo del tempo di cui dovrà dirsi pago, ha
già consumato un giorno intero. « Me genésthai! » dice il saggio, la cosa migliore è non essere generati. Ma a chi
tocca questa fortuna? A stento a uno, su milioni e milioni.
Il bambino strilla. Angustia e malessere sono i primi a bussare alla porta ancora serrata della coscienza, e con i loro
colpi lo disturbano nel sonno. Gridando, il bambino leva un lamento, un’accusa per il fatto di essere al mondo. Gli
adulti, assuefatti, incalliti forzati della vita, accolgono il nuovo venuto con il tipico umorismo che cela l’imbarazzo.
Ipocritamente domandano: « Insomma, che c’è? » come se non sapessero benissimo che cosa c’è.
Intonando nenie carezzevoli, il padre esorta il bambino a sorridere. Con occhi avidi va spiando questo sorriso come
un segno che il povero essere si è rassegnato al destino di stare al mondo. « Avanti, fammi una risatina! »
sussurra, e questo vuoi dire: Mostra che mi perdoni di averti scaraventato nella comunità dei viventi! L’amore
paterno è in parte senso di colpa verso il figlio che è nato. Ma nei padri, com’è naturale, questo sentimento è
incapsulato fino a essere quasi impercettibile, represso com’è dall’orgoglio del creatore, sebbene la breve mansione
del padre nel generare la creatura, se la si paragona alla prestazione materna, non sia poi così impressionante.
Dimora già un’anima nel mucchietto di cellule ar-moniosamente disposte? Sono già venute le buone fate a recare
doni e talenti, e le streghe malvage che portano i primi complessi? La piccola macchina lavora a pieno ritmo; il cuore
batte, il sangue corre, le ghiandole secernono, i polmoni liberano ossido di carbonio, e le dita piccine, minuscole
punte di una forchettina di bambola, si serrano al dito del padre commosso. Il bambino afferra ciò che può
raggiungere. Ecco, è un uomo!
Ogni volta che un neonato apre gli occhi per la prima volta, si compie per suo tramite la rinascita dell’universo. È lui
che schiude al mondo le porte attraverso le quali il mondo deve entrare per poter esistere. L’assalto è impetuoso, i
teneri cancelli devono essere continuamente richiusi. Ma non c’è fretta, ogni cosa a suo tempo.
L’occhio del bambino: qui un mondo si sporge a guardare dentro. L’occhio dell’adulto: un mondo si sporge qui a
guardare fuori. Per questo esso è torbido come il vetro di un bicchiere sul quale aderiscono ancora molte tracce di
ciò che è stato bevuto. Il bambino strilla. Ma quando riceve da bere, da un tenero, tenerissimo sospiro di sollievo, i
suoi lineamenti si distendono, e a ogni piccolo sorso di latte sugge sul volto un sorso di pace. Così, fin dall’inizio, gli
esseri umani sono corrotti dal nutrimento, piegati a reprimere i loro pensieri più veri, a non disturbare, a stare buoni.
Ah, com’è buono il bambino! Anche il male è buono purché sia in miniatura. E buoni sarebbero l’inferno in formato
tascabile, e perfino il diavolo, se apparisse grande quanto un pollice e con una codina di topo.
La madre riposa, pallida e spossata. Si sente strana, così gradevolmente vuota e così dolorosamente abbandonata,
così colma di doni e così brutalmente adoperata. E la sua anima, che rende grazie a Dio, confida intimamente nella
sua gratitudine. Può ben pretenderlo, questo: il Creatore vive nelle sue creature, e ogni pezzette di nuova vita che
nasce si aggiunge alla vita di Lui.
Lieve, la porta si apre. La madre non si meravi-glierebbe per nulla se entrassero in punta di piedi i tre re dell’Oriente.
Ma è solo lo zio Poldi.
FAMIGLIE CRESCITA SICUREZZA
All’inizio è sempre geografia.
Parola che mi porta a casa, parola che mi porta via.
Basta pensarla, ne nasce storia.
È il primo inverno della vita che ricordo. La notte cala presto.
In cucina, vicino al fuoco, io e la nonna. Scoppiettio della legna e lenta sonnolenza, dentro. Fuori è il finimondo da
tormenta, acqua, grandine, tuoni e fulmini. Il vento si infila tra le piagne del tetto, nelle fessure delle finestre muove
vetri e telai, fa tremare le porte, ulula, fischia e risucchia tra le scale e il solaio.
La nonna sta apparecchiando. La sua presenza argina e dissolve ogni paura possibile. E la mia forza, la mia
sicurezza. Sostiene la casa tutta e il mondo intorno.
«Bimbo! vai di sopra a prendere due mele che la nonna è stanca e non sta tanto bene.»
È una richiesta spaventosa! Si tratta di uscire in corridoio, salire le scale fino al primo piano, aprire la porta cigolante
scura e pesante della sala, attraversarla che, nell’angolo, sulle assi del pavimento sono conservate le mele dell’orto
per l’inverno.
Dire no alla nonna non si può. Dire sì come si fa? Di là dalla porta della cucina c’è il buio, gli spifferi gelidi, i rumori, le
scale che dal fondo non si vede in cima. La paura.
«Non avrai mica paura? Questa è la nostra casa e tu sei già un ometto.» Devo farlo. Non c’è dubbio. «Lascia la
porta aperta così ci vedi.» La scala è ripida, gli scalini altissimi, sarà dura. I primi scalini li faccio in ginocchio
tirandomi su a fatica.
«Come va?» la voce della nonna mi rincuora. «Nonna.» «Sì, bimbo.» «Va bene, nonna.»
La voce combatte la paura. Mi alzo in piedi e attaccato al corrimano salgo.
Ogni scalino, prima un piede poi tutti due, un richiamo. «Nonna.» «Sì, bimbo.» «Sono qui.» «Bravo.» «Va bene.»
«Bravo.»
Dieci scalini, è fatta, spingo la porta e la grande stanza è tutta ombre.
Solo la voce mi può aiutare. Più forte: «Nonna». «Sì, bimbo.» «Sono qui. Nella sala.»
«Bravo. Prendi due mele e portale giù. Attento a non cadere.»
Occhi e orecchie sbarrati arrivo alle mele e mi volto. La luce fioca che sale col tepore del fuoco, adesso in fronte, fa
più facile il ritorno, ma le gambe mi tremano e devo sedermi sul primo scalino per riprendermi.
Due mele nelle mani: «Nonna, ecco». L’eccitazione addosso e l’orgoglio di aver compiuto l’impresa.
«Bravo bimbo, diventi grande alla svelta e la nonna è contenta, si può fidare di te. A tavola, adesso, che la cena
stasera te la sei guadagnata come un ometto.»
Questo è il primo ricordo che lego alla scoperta del mondo. Una scoperta concentrica per allargamento. …
In Giovanni Lindo Ferretti, Reduce, Mondadori, 2006, 41-43
FAMIGLIE EDUCAZIONE
“Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi.
Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del
pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore della verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e
l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere.
Di solito invece facciamo il contrario: ci affrettiamo a insegnare il rispetto per le piccole virtù, fondando su di esse
tutto il nostro sistema educativo. Scegliamo, in questo modo, la via più comoda… . Trascuriamo d’insegnare le grandi
virtù, e tuttavia le amiamo, e vorremmo che i nostri figli le avessero: ma nutriamo fiducia che scaturiscano
spontaneamente nel loro animo, un giorno avvenire, ritenendole di natura istintiva, mentre le altre, le piccole, ci
sembrano il frutto d’una riflessione e di un calcolo e perciò noi pensiamo che debbano assolutamente essere
insegnate.
In realtà la differenza è solo apparente: Anche le piccole virtù provengono dal profondo del nostro istinto, da un
istinto di difesa: ma in esse la ragione parla, sentenzia, disserta, brillante avvocato dell’incolumità personale. Le
grandi virtù sgorgano da un istinto in cui la ragione non parla, un istinto a cui mi sarebbe difficile dare un nome. E il
meglio di noi è in quel muto istinto: e non nel nostro istinto di difesa, che argomenta, sentenzia, disserta con la voce
della ragione.
L’educazione non è che un certo rapporto che stabiliamo fra noi e i nostri figli, un certo clima in cui fioriscono i
sentimenti, gli istinti, i pensieri. Ora io credo che un clima tutto ispirato al rispetto per le piccole virtù, maturi
insensibilmente al cinismo, o alla paura di vivere. Le piccole virtù, in se stesse, non hanno nulla da fare col cinismo,
o con la paura di vivere: ma tutte insieme, e senza le grandi, generano un’atmosfera che porta a quelle
conseguenze. Non che le piccole virtù, in se stesse, siano spregevoli: ma il loro valore è di ordine complementare e
non sostanziale; esse non possono stare da sole senza le altre, e sono, da sole senza le altre, per la natura umana
un povero cibo. Il modo di esercitare le piccole virtù, in misura temperata e quando sia del tutto indispensabile,
l’uomo può trovarlo intorno a sé e berlo nell’aria: perché le piccole virtù sono di un ordine assai comune e diffuso tra
gli uomini. Ma le grandi virtù, quelle non si respirano nell’aria: e debbono essere la prima sostanza del nostro
rapporto coi nostri figli, il primo fondamento dell’educazione.
Inoltre, il grande può anche contenere il piccolo: ma il piccolo, per legge di natura, non può in alcun modo contenere
il grande.”
Natalia Ginzburg, Le piccole virtù
FAMIGLIE MADRI
Certe madri hanno bisogno di figli infelici, altrimenti la loro bontà di madri non può manifestarsi.”
Friedrich Wilhelm Nietzsche
