Prospettive assistenziali, n. 118, aprile-giugno 1997
LA RELAZIONE CONCLUSIVA DELLA COMMISSIONE ONOFRI SU PREVIDENZA, SANITÀ E ASSISTENZA
Riportiamo le parti principali della relazione conclusiva redatta in data 27 febbraio 1997 dalla Commissione, presieduta dal Prof. Paolo Onofri, incaricata dal Presidente del Consiglio dei Ministri di analizzare «le compatibilità macroeconomiche della spesa sociale».
Per quanto riguarda le indicazioni in materia di assistenza, a nostro avviso è pienamente condivisibile la proposta di istituire il “Minimo vitale”; iniziativa che in alcuni Comuni è stata attuata da vent’anni (1).
Rileviamo, inoltre, con molto favore che la Commissione Onofri ha precisato che per valutare le condizioni di bisogno devono essere prese in considerazione tutte le risorse economiche dei soggetti interessati, e cioè i patrimoni ed i redditi, compresi quelli derivanti dal possesso di BOT, CCT, BTP e altre obbligazioni.
Abbiamo, però, molte perplessità circa l’attribuzione della gestione del “Minimo vitale” ai Comuni, in considerazione della loro dispersione (si tratta, infatti, di ben 8.100 enti) e del rischio, non ipotetico, del clientelismo.
Come avevamo già rilevato nel numero scorso (2), gli emolumenti a carattere continuativo a favore delle persone impossibilitate a provvedere alle proprie esigenze dovrebbero essere sottratti ai settori della previdenza e dell’assistenza ed assegnati ad un nuovo comparto che potrebbe essere denominato della “Sicurezza sociale”.
In merito alla proposta della Commissione Onofri di istituire il “Fondo per i non autosufficienti” rileviamo che l’iniziativa si fonda su due considerazioni assolutamente sbagliate.
Infatti, come risulta dal documento “La spesa per I’assistenza” redatto da F Bimbi, P. Bosi, F. Ferrera e C. Saraceno (3), la cura degli anziani non autosufficienti non è né dovrebbe essere una attività del settore sanitario poiché «il servizio sanitario nazionale non può farsene carico se non in forma impropria e dispendiosa (ad esempio, il ricovero prolungato)» ignorando non solo che le leggi dal 1955 obbligano la sanità a curare senza limiti di durata anche le persone inguaribili, ma non tiene nemmeno conto delle esperienze, positive sul piano terapeutico e vantaggiose sotto il profilo finanziario, relative alle cure domiciliari realizzate anche nel nostro paese.
È inoltre assai preoccupante che nel sopra citato documento si sostenga l’esistenza di obblighi economici da parte dei congiunti dei malati non autosufficienti, obblighi che – come sanno bene i nostri lettori – non sono previsti da norme di legge.
Infine, concordiamo pienamente con il Prof. Carlo Hanau, docente di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari presso l’Università di Bologna, secondo cui il Fondo per i non autosufficienti va respinto non solo perché attribuisce al settore assistenziale competenze spettanti alla sanità, ma anche «per concreti motivi finanziari». Infatti «la situazione di non autosufficienza riguarda mediamente oltre un anno di vita pro capite, con grande variabilità dovuta alle diverse forme di malattia: ad esempio la sindrome di Alzheimer giunge a coprire anche gli ultimi quindici anni di vita. I costi medi di una residenza sanitaria assistenziale, necessaria a provvedere in questi casi quando la famiglia non è in grado di tenere il malato a domicilio, possono essere stimati prudenzialmente nell’ordine di una cinquantina di milioni. In prospettiva saranno sempre meno le famiglie in grado di provvedere e pertanto non sarà azzardato prevedere un esborso pari a tale cifra per ogni cittadino che giunge al termine della vita. La proposta della commissione recita: “La copertura assicurativa dovrebbe essere estesa a tutta la popolazione, con modalità di finanziamento che garantiscano l’equilibrio di gestione”. Sulla base di queste premesse c’è qualcuno che abbia fatto i conti per stabilire quanto dovrebbe essere accantonato da ogni cittadino, per garantire l’equilibrio fra entrate ed uscite?».
LA RELAZIONE ONOFRI (Estratto)
La situazione attuale
Come mostrano chiaramente le figure 1 e 2 allegate, poco meno dei due terzi della spesa per la protezione sociale è costituito da pensioni e rendite, pur escludendo da questa voce le pensioni di guerra, sociali, di invalidità civile, per ciechi e sordomuti, che vanno considerate sotto la voce assistenza. Mentre la spesa per la sanità ha raddoppiato in trentacinque anni il suo peso in termini di Pil e quella per assistenza l’ha leggermente ridotto, la spesa per pensioni e rendite si è moltiplicata quasi per quattro.
Negli ultimi trentacinque anni il sistema della spesa sociale si è quindi concentrato sui rischi economici della vecchiaia. Attraverso il sistema pensionistico ha sostenuto la ricchezza prospettica degli individui, garantendo un più elevato reddito disponibile, che i lavoratori dipendenti e, in misura più rilevante, quelli autonomi hanno potuto proiettare permanentemente anche oltre il ciclo lavorativo della propria vita. Nel caso degli autonomi, non tanto per l’entità delle pensioni individuali, quanto per la innovazione che il sistema ha presentato per tali lavoratori, ai quali veniva garantita la pensione indipendentemente dagli anni di contribuzione.
Scarsi sono stati gli interventi a copertura degli altri rischi economici individuali, se si escludono le integrazioni salariali per interruzione temporanea del lavoro (CIG – Cassa integrazione guadagni), che per quasi vent’anni sono state l’unica forma di assistenza significativa.
Italia ed Europa, un confronto
Per il complesso delle prestazioni sociali (nella definizione dell’Eurostat) il nostro paese spende all’incirca un quarto del Pil; una spesa non dissimile da quella media dei dodici paesi dell’Unione Europea nel 1995. L’Italia non appare dunque “fuori linea” in termini aggregati, né per eccesso né per difetto.
La grande anomalia della situazione italiana riguarda piuttosto la struttura interna della spesa. I confronti europei mettono in luce infatti due marcate distorsioni: una distorsione che riguarda i rischi ed una che riguarda le categorie protette.
Per quanto riguarda i rischi, la quota di risorse destinata, nel nostro paese, a proteggere “vecchiaia e superstiti” appare significativamente più elevata che negli altri paesi: il 51,5% della spesa sociale complessiva, di contro a una media comunitaria del 45,3%. La spesa a tutela dei rischi “disoccupazione/formazione”, “famiglia/ maternità”, “abitazione” e “altra assistenza” riceve una proporzione di risorse della spesa sociale di gran lunga più bassa che altrove in Europa (il 18,4% contro il 31,9%). Per quanto riguarda la spesa sanitaria, il nostro paese è in linea con gli altri. A essa viene destinato dalla media dei dodici paesi europei circa un sesto della spesa sociale in termini di Pil, si tratta all’incirca del 5%, con una tendenza alla diminuzione comune anche agli altri paesi OCSE.
Per quanto riguarda le categorie protette (seconda distorsione), rispetto alle situazioni straniere si osserva un forte divario tra le prestazioni previste per i lavoratori (o ex lavoratori) inseriti all’interno del mercato del lavoro regolare (in particolare la grande impresa o il pubblico impiego) e le prestazioni previste per gli altri lavoratori o per i non occupati. La pensione di vecchiaia di un lavoratore “forte” può essere fino a quattro volte superiore alla pensione sociale (negli altri paesi il rapporto tende ad essere di uno a due). Per quanto riguarda la tutela della disoccupazione, chi beneficia dell’indennità di mobilità riceve in Italia più del doppio di chi riceve l’indennità ordinaria (negli altri paesi esiste un trattamento uniforme per tutti i lavoratori). Risalta poi anche l’assenza in Italia di uno schema di reddito minimo per chi è totalmente sprovvisto di mezzi, nonché di una rete adeguata di servizi per le famiglie. Tutti i paesi europei più sviluppati dispongono di questo tipo di schemi e servizi.
In termini comparati, dunque la situazione della spesa sociale nel nostro paese appare sbilanciata a favore delle pensioni e, quindi, prospetticamente più fragile a causa della stretta dipendenza del sistema pensionistico dall’invecchiamento più rapido della popolazione.
La convergenza europea dei sistemi di benessere collettivo
In termini di istituti, i sistemi di sicurezza sociale europei sono diversamente predisposti ad affrontare gli effetti esercitati dalle tendenze e dai vincoli menzionati. AI fine di stimolare una convergenza anche nella spesa sociale e non solamente nelle condizioni finanziarie, l’Unione Europea ha sollecitato i singoli paesi ad agire nella direzione:
– della ristrutturazione dei sistemi pensionistici obbligatori, volta ad attenuarne la generosità a fronte dell’evoluzione demografica;
– dell’adozione di un approccio “contrattuale” e di forme di “concorrenza amministrata” in seno ai sistemi sanitari pubblici, onde promuoverne l’efficienza;
– del rafforzamento della “selettività” rispetto ai mezzi negli schemi di integrazione del reddito ed un generale spostamento di risorse dalla tutela dei tradizionali rischi “standard” delle assicurazioni sociali alla protezione di nuovi bisogni (esclusione sociale, perdita dell’autosufficienza, ecc.) nonché all’offerta di nuovi e maggiori servizi alle famiglie;
– del passaggio da un approccio “passivo” ad uno “attivo” nel disegno e nella gestione degli schemi di inabilità al lavoro e di disoccupazione, al fine di prevenire sindromi di eccessiva dipendenza dai sistemi pubblici di sostegno;
– della riforma dei meccanismi di finanziamento della protezione sociale, al fine di renderla più “amichevole” nei confronti del mercato occupazionale, ed in particolare lo sforzo di ridurre le imposte e gli oneri sociali sul lavoro, per non disincentivare l’offerta di nuovi posti.
La convergenza del sistema di spesa sociale italiano
Per quanto riguarda il nostro paese, le tendenze prima menzionate e l’esigenza di una maggiore convergenza verso la struttura della spesa sociale europea sollecitano uno spostamento della spesa verso gli ammortizzatori sociali al fine di sostenere una maggiore mobilità occupazionale e proteggere in modo sistematico dai rischi della povertà e verso le politiche attive del lavoro.
In ogni caso, sono le tendenze di lungo periodo che segnalano possibili situazioni di instabilità intrinseca dei sistemi di spesa sociale, oppure una loro palese incompatibilità prospettica con vincoli macroeconomici. A questo riguardo abbiamo già sottolineato che la tendenza di medio-lungo periodo segnala la possibilità che nel corso dei prossimi venti anni vi sia una espansione della spesa per pensioni e per prestazioni sanitarie che aumenta di due punti percentuali del Pil. L’adeguamento del nostro sistema di ammortizzatori sociali (mercato del lavoro e redditi, in generale) potrebbe richiedere un’ulteriore espansione di circa 0,7 punti percentuali.
L’aumento tendenziale di 2,5/3 punti di Pil della spesa per la protezione sociale sarebbe decisamente incompatibile con il mantenimento della attuale pressione tributaria e contributiva, giudicata già politicamente insopportabile, economicamente disincentivante e penalizzante per quanto riguarda le capacità concorrenziali dei nostro sistema economico.
La spesa per l’assistenza
La spesa per assistenza in Italia riflette un modello obsoleto, molto distante da quello seguito dai paesi europei con i quali siamo soliti confrontarci. Nell’ambito delle politiche sociali, essa ha un ruolo residuale, schiacciata da un sistema pensionistico ingombrante e iniquo e un sistema sanitario poco efficiente. Le risorse destinate a questo settore non sono molte (3,5% del Pil) e mostrano un trend declinante rispetto al Pil (era il 5,4% nel 1985). In prospettiva, sembra opportuno muoversi verso un incremento di questi interventi, ma la necessità più urgente è una profonda ristrutturazione del loro assetto, oggi fondato su un insieme di istituti prevalentemente costituiti da prestazioni monetarie di tipo “passivo”, che non sono in grado né di raggiungere apprezzabili risultati redistributivi, né di cogliere i veri bisogni dei beneficiari dando loro concrete opportunità, in quanto possibile, di recuperare autosufficienza.
La riforma deve ispirarsi ad una scelta equilibrata tra universalismo, quanto ai beneficiari, e selettività, nell’erogazione delle prestazioni; ridefinire i bisogni e i destinatari degli interventi rivolti alla cittadinanza in generale (non solo anziani, ma anche altre figure sociali; non solo sussidi monetari, ma sostegni mirati ai bisogni e alle funzioni di cura che emergono nel ciclo di vita); sostenere radicalmente un approccio che destini sempre più i trasferimenti dello Stato a servizi erogati a livello locale; valorizzare le funzioni di orientamento e programmazione e scelte gestionali svolte a livello locale nell’ambito di un quadro legislativo di indirizzo nazionale.
I cardini delle riforme proposte sono i seguenti:
1) Portare a compimento la separazione tra previdenza ed assistenza, fondando il finanziamento della prima su forme contributive, e quello della seconda sull’imposizione generale. In questo quadro vanno, in una prima fase, rivisti i criteri e le modalità degli attuali trasferimenti dal bilancio dello Stato all’Inps e, successivamente, ridefiniti gli enti gestori in un quadro di maggiore decentramento e in una prospettiva federalista.
2) Razionalizzare e unificare gli istituti di redistribuzione monetaria esistenti, introducendo nuovi istituti, il Minimo vitale e il Fondo per i non autosufficienti; attuare appropriate revisioni delle detrazioni per figli a carico nell’ambito dell’imposizione personale; riformare, nella fase transitoria, gli istituti esistenti, con particolare riguardo alla definizione di criteri omogenei e affidabili di controllo delle risorse dei beneficiari.
3) Potenziare il ruolo degli enti decentrati nell’offerta dei servizi ai cittadini in condizioni di disagio, definendo un meccanismo di finanziamento del settore, analogo a quello della sanità, che attribuisca allo stato la funzione di indirizzo e sostegno, alla regione il compito della programmazione e ai comuni, in primis, le funzioni di orientamento degli interventi e quelle relative alle scelte gestionali a livello della città e del territorio, in accordo con gli altri enti locali e alle organizzazioni non profit pubbliche e private.
4) Costituire un istituto nazionale, con la partecipazione degli enti decentrati interessati (Regioni e Comuni), con lo scopo di ridefinire e uniformare i criteri di misura e accertamento dei mezzi a cui è subordinata l’erogazione delle prestazioni di sicurezza sociale e più in generale dei servizi pubblici e di fornire supporto tecnico e informativo agli utilizzatori.
Nel sistema italiano, a differenza dì quanto accade in tutti i paesi evoluti, manca un istituto del Minimo vitale che assolva la funzione di una rete di protezione, a cui qualsiasi cittadino, indipendentemente dal genere, dalla classe sociale, dalla professione – in condizioni di indigenza, per ragioni non dipendenti dalla propria volontà – possa accedere per trovare un sostegno economico e/o l’offerta di opportunità e servizi per uscire dallo stato di bisogno.
II Minimo vitale che si propone è uno strumento indirizzato alle fasce più deboli della società: aiuta tutti coloro che hanno risorse inferiori ad una certa soglia di reddito ed è costruito in modo da attenuare la trappola della povertà, perché reintegra solo parzialmente la distanza tra le risorse del soggetto e la soglia di povertà.
II Minimo vitale è un sussidio indirizzato agli individui maggiorenni, il cui benessere è tuttavia valutato in base alle risorse del nucleo familiare in cui è inserito e tiene conto del fatto che le famiglie sono diverse, per numerosità, composizione e carico di persone non autosufficienti o non ancora fisicamente autonome; misura le risorse economiche della famiglia nel modo più corretto possibile, fondandosi non solo sul reddito dichiarato ai fini dell’Irpef, ma tenendo conto anche di altri elementi (redditi esclusi dall’Irpef, patrimonio immobiliare, ecc.), cercando così di attenuare i problemi legati all’accertamento delle risorse dei beneficiari.
II Minimo vitale mira al reinserimento nel mondo del lavoro dei beneficiari, perché, nel caso di inoccupati non inabili in età da lavoro, l’aiuto è concesso per un periodo limitato, solo se il nucleo familiare si trova in condizioni di effettiva indigenza, ed è congegnato in modo che il beneficiario sia responsabilizzato alla ricerca attiva di occupazione e solo se è disponibile ad accettare offerte di lavoro, a partecipare a lavori socialmente utili o a programmi di formazione. Esso tiene inoltre conto dei bisogni e delle opzioni di scelta di chi svolge lavori di cura nel nucleo familiare.
II Minimo vitale è gestito dalle comunità locali, in primo luogo dai Comuni, perché queste sono più capaci di cogliere le diverse esigenze delle persone che si trovano nello stato di bisogno e perché a questo livello è più facile individuare le priorità a cui rispondere e identificare le forme di gestione adatte per realizzare i servizi più efficaci; è integrato con le politiche assistenziali locali che offrono servizi alle persone in stato di bisogno (vecchiaia, malattia, handicap, esclusione sociale); è integrato con le politiche attive del mercato del lavoro, che a loro volta possono essere realizzate solo attraverso strutture decentrate e flessibili, con la collaborazione degli enti locali.
In prospettiva, il sistema assistenziale potrebbe essere arricchito di un altro nuovo istituto: il Fondo per i non autosufficienti, sul modello della Pflegeversicherung tedesca, con la funzione di assicurare a tutti i cittadini che vi partecipano prestazioni monetarie e cure mirate all’effettivo stato di bisogno nel momento in cui si crei una situazione di non autosufficienza. La copertura assicurativa dovrebbe essere estesa a tutta là popolazione, con modalità di finanziamento che garantiscano l’equilibrio della gestione.
L’introduzione dei nuovi istituti comporterebbe l’abolizione degli assegni familiari, dell’assegno per il nucleo familiare, della pensione sociale e dell’assegno sociale introdotto dalla riforma del 1995. AI finanziamento di tali programmi andrebbero gradualmente destinate le risorse che si renderanno disponibili in seguito all’interruzione dei residui istituti di redistribuzione del reddito (integrazioni al minimo, pensioni di guerra, indennità di accompagnamento e in genere pensioni e indennità per invalidità).
I nuovi istituti di cui si propone l’introduzione dovranno convivere per lungo tempo con quelli preesistenti. Questi dovranno tuttavia essere riformati, prevedendo più razionali criteri di determinazione dei limiti di reddito; accelerando l’estinzione delle integrazioni al minimo in connessione con le proposte qui avanzate di completamento della riforma pensionistica; prevedendo modificazioni dei criteri di riconoscimento delle invalidità; riformando l’istituto dell’indennità di accompagnamento.
Dal punto di vista finanziario la spesa per l’assistenza potrebbe mantenere nella fase iniziale il proprio peso sul Pil, pari al 3,5%, per elevarsi gradualmente al 4,2% nel 2001, a condizione che si realizzino apporti derivanti da risparmi di altri comparti della spesa sociale. Quanto alla composizione della spesa, la riforma determinerà un ingente spostamento di risorse da istituti che si limitano ad erogare trasferimenti monetari a istituti che mirano al soddisfacimento dei bisogni offrendo servizi (che passerebbero, dal 7-10% attuale, a oltre un terzo della spesa complessiva). L’efficacia della riforma dipenderà tuttavia in modo cruciale dalla determinazione con cui, nella fase di articolazione delle proposte, si affronteranno le inerzie derivanti da malintese interpretazioni dei diritti acquisiti e dalle lentezze burocratiche.
II sistema sanitario
Ad alcuni anni dall’approvazione della riforma, sono rilevabili alcuni problemi di fondo connessi ai seguenti nodi principali:
– i processi di assegnazione dei budget dal centro alle Regioni e da queste alle Aziende USL non sono stati ratificati in modo preciso e portano a fenomeni di contrattazione spesso non correlati alle esigenze di finanziamento dei livelli di assistenza;
– il ripetersi di deficit “strutturali” a livello sia regionale sia di Azienda USI evidenzia una difficoltà ad individuare forme efficaci di responsabilizzazione e di penalizzazione dei soggetti che erogano la spesa;
– con riferimento al punto precedente, i soggetti erogatori prestano un’insufficiente attenzione all’introduzione di adeguati incentivi mirati al contenimento della spesa a livello dei singoli operatori;
– viene destinata una quota eccessiva di spesa ai trattamenti ospedalieri a scapito delle altre funzioni istituzionali del Servizio sanitario nazionale;
– si verifica una grave difficoltà a definire le modalità di competizione tra soggetti privati e pubblici e, per quanto riguarda questi ultimi, la separazione tra funzioni di programmazione e di erogazione dei servizi.
A fronte dei problemi di cui sopra, la –riforma che qui si propone tocca in maniera equilibrata sia la componente del prelievo sia quella delle modalità di erogazione della spesa.
Per quanto attiene al primo aspetto, in seguito all’abolizione dei contributi sanitari e all’introduzione dell’IREP, per tener conto del diverso trattamento dei redditi da pensione nei due regimi si auspica una ridefinizione delle detrazioni IRPEF su tali redditi.
Sempre dal lato delle entrate, si propone di accelerare l’attuazione della normativa vigente relativamente all’autofinanziamento delle Regioni. In particolare, si prevede che quest’ultime, per ampliare le entrate proprie, possano introdurre compartecipazioni sul ricovero in regime ordinario e di day-hospital, all’interno di importi minimi e massimi fissati dal Ministero della sanità. Le somme derivanti dalla partecipazione alla spesa per queste prestazioni non devono concorrere al finanziamento della quota capitaria. Inoltre, le Regioni potranno introdurre compartecipazioni sulle prestazioni aggiuntive erogate dalla medicina generale (visite domiciliari e assistenza domiciliare programmata) con l’esclusione di quelle previste all’interno di programmi regionali speciali.
Per quanto attiene alle modalità di erogazione della spesa, si propone in primo luogo di rivedere il meccanismo di riparto tra il centro e le Regioni, ratificando le modalità di distribuzione del Fondo sanitario regionale ed ampliando il potere del Ministero della sanità e delle Regioni nell’attribuzione dei finanziamenti ad organismi ed attività di interesse nazionale. In questo ambito, si propone di rafforzare gli strumenti di penalizzazione per le Regioni che presentano disavanzi e di ridurre le quote di interessi sui mutui accesi dalle Regioni.
Per quanto attiene alle competenze del Ministero della sanità, si propone un riassetto delle organizzazioni centrali finalizzato a riorganizzare le strutture preposte alla funzione sanitaria, potenziando i compiti di programmazione, coordinamento e controllo e finalizzando le risorse dell’Istituto Superiore di Sanità a compiti di sanità pubblica.
Per quanto concerne le competenze delle Regioni, si evidenzia la necessità che queste ultime adottino tariffari DRGS articolati in base alla complessità delle strutture produttrici e che impongano alle Aziende USL la definizione di budget preventivi per la spesa ospedaliera per evitare sfondamenti su altre prestazioni. Si propone inoltre che venga effettivamente imposto ai singoli presidi il vincolo del bilancio in pareggio e che eventuali residui attivi possano essere utilizzati all’interno delle divisioni che li hanno realizzati per finalità di potenziamento delle strutture. Per favorire una maggiore scelta dei pazienti e più stringenti meccanismi di contenimento della spesa, si propone inoltre di accentuare il processo avviato di responsabilizzazione dei medico di medicina generale, consentendo nuove modalità organizzative della medicina di gruppo e prevedendo penalizzazioni per lo sfondamento dei tetti di spesa programmati.
Come si è visto, il legislatore nel 1992 aveva predisposto l’introduzione di alcuni strumenti che ancora attendono di essere regolamentati. A questo proposito, si propone di procedere all’introduzione di forme di assicurazione sanitaria integrativa con contestuale ridefinizione dell’insieme delle prestazioni garantite dal SSN al fine di definirne con chiarezza gli ambiti operativi.
Esistono infine alcuni spazi di intervento su aree non esplicitamente previste dalla riforma del 1992 e che tuttavia appaiono di grande rilevanza per migliorare la qualità dei servizi complessivamente resi dal Servizio sanitario nazionale.
Sotto il profilo degli interventi mirati ad introdurre una maggiore capacità di scelta degli utenti e un maggiore grado di competizione tra i produttori, si propongono i seguenti punti. In primo luogo, ridefinire le regole di accesso al mercato della distribuzione dei farmaci, eliminando restrizioni non giustificabili in termini di contenimento della spesa. In secondo luogo, si ravvede I’opportunità di consentire, in via sperimentale, la gestione di alcuni grandi ospedali ad organizzazioni non lucrative di utilità sociale. Infine, per quanto attiene i contratti collettivi nazionali dei medici ospedalieri, si propone una definizione generalizzata di rapporti di lavoro a termine e l’abbandono del metodo di individuazione dei fabbisogni sulla base di piante organiche.
II sistema pensionistico
Dopo anni di riforme abortite, è difficile non vedere i passi avanti che la riforma previdenziale del 1995 ha permesso sotto il profilo dell’immunizzazione del sistema previdenziale rispetto agli shock demografici, rispetto alle scorrerie della politica, rispetto alle più palesi iniquità. Quest’ultimo punto è naturalmente, centrale. Sorprende, anzi, la scarsa consapevolezza che i ripetuti fallimenti delle passate proposte di riforma fossero dovuti al fatto che le proposte stesse non affrontavano mai il tema della uniformità dei trattamenti pensionistici. Solo dopo aver posto tutti gli assicurati su un piede di parità è possibile (e doveroso) chiedere agli stessi un sacrificio più o meno rilevante.
Pur all’interno di un sistema che rimane a ripartizione, l’adozione del metodo contributivo ha rappresentato, poi, una svolta in quanto ha restituito al beneficio pensionistico il carattere di controprestazione rispetto al versamento contributivo.
Della riforma sono condivisibili, dunque, i principi ispiratori. La riforma non è priva, peraltro, di punti deboli derivanti, in larga misura, da una applicazione a volte timida dei principi di fondo della riforma stessa. Risalta, in particolare, la lenta fase di transizione con la quale si sono addebitati, in larga misura, alle generazioni più giovani i costi del cambio di regime. Ma proprio perché della riforma sono interamente condivisibili gli elementi di fondo, è opportuno por mano, con le modalità e nei tempi anche brevi previsti dalla riforma stessa, a determinate modifiche del sistema riformato per consolidarlo, da un lato, per limitare gli elementi residui di iniquità, dall’altro, e per associargli un sistema di previdenza complementare inteso a permettere una diversificazione del “portafoglio pensionistico” dei lavoratori e quindi un progressivo riequilibrio fra previdenza obbligatoria e previdenza complementare.
La Commissione suggerisce, quindi, di operare nelle seguennti direzioni, anche alla luce dalle proiezioni citate in precedenza.
a) Attuazione della riforma. 1) Applicazione rigorosa dei principi e della lettera della riforma, per quanto riguarda l’esercizio delle deleghe (in particolare, per quanto riguarda l’armonizzazione dei regimi previdenziali) e l’emanazione dei relativi decreti ministeriali. 2) Estensione del processo di armonizzazione al fine di porre termine ai benefici ed alle eccezioni ancora presenti in materia di età pensionabile, anzianità contributiva minima, retribuzione pensionabile, valutazione dei periodi di lavoro, rendimento annuo, massimale pensionabile, disciplina del cumulo, riordino del sistema delle prestazioni di inabilità e di invalidità.
È presumibile che, sotto il profilo finanziario, effetti non irrilevanti (ma non decisivi) possano derivare da una rigorosa applicazione delle indicazioni precedenti.
b) Separazione fra previdenza e assistenza. Individuazione di un corretto trattamento contabile delle partite di natura assistenziale gestite a carico dell’Inps, anche attraverso l’estensione prospettica delle disposizioni di cui al disegno di legge n. 1452 (“Disposizioni in materia di anticipazioni di tesoreria all’Inps”) e relative, per il momento, alle sole partite pregresse.
La definizione, nei termini proposti, della questione non influirebbe sui livelli di spesa corrente, rilevando unicamente sotto il profilo giuridico-contabile. Essa impedirebbe, però, di confondere (come spesso si è fatto anche in tempi recenti) il saldo complessivo Inps con le tendenze della spesa pensionistica.
c) Previdenza obbligatoria a regime. 1) Unificazione (e non già semplice armonizzazione) dei regimi pensionistici oppure, in alternativa, autonomia gestionale e finanziaria degli enti previdenziali consentita solo a condizione che vengano ridefinite le regole di autosufficienza finanziaria di tali regimi sulla base di bilanci tecnici previsionali di lungo periodo. In base a quest’ultimi sarebbe necessario prevedere, per legge, gli interventi correttivi necessari sia relativamente all’adeguamento della contribuzione che del livello delle prestazioni. Ove emergesse con evidenza la loro insostenibilità si dovrebbe prevedere la loro confluenza nell’Assicurazione generale obbligatoria riconoscendo agli iscritti i soli diritti pensionistici sulla base delle regole generali e non di quelle specifiche previste dai singoli fondi. 2) Applicazione senza eccezioni del principio contributivo con graduale allineamento delle aliquote di computo. 3) Tempestiva ed automatica revisione dei coefficienti di trasformazione. 4) Allineamento del limite inferiore o del livello di riferimento dell’età pensionabile ai livelli europei in vista di una riduzione a regime delle aliquote di finanziamento.
Gli effetti finanziari derivanti dalle misure citate potrebbero consolidare strutturalmente il sistema pensionistico a regime. Nel breve periodo gli effetti finanziari potrebbero derivare dall’intervento di cui al punto 2) con intensità inversamente proporzionale alla gradualità dell’intervento.
d) Transizione. 1) Accelerazione della transizione al nuovo regime attraverso la eliminazione di alcune difformità di trattamento attualmente presenti. 2) Revisione dei criteri di valutazione dei diritti pensionistici nei casi di carriere lavorative precoci o di lavori usuranti anche al fine di permettere un equo trattamento in previsione di una modifica del metodo di calcolo o dei requisiti d’accesso al pensionamento vigenti. 3) Individuazione di un sistema di incentivi inteso ad accelerare l’entrata in vigore della riforma (anche attraverso il collegamento della opzione a favore del regime contributivo con il processo di privatizzazione delle aziende o del patrimonio pubblico).
Per quanto riguarda gli effetti finanziari, sono prevedibili risparmi che, pur se trascurabili nel breve periodo, assumerebbero consistenza crescente nel medio termine in corrispondenza del periodo di maggiore impatto degli effetti della transizione demografica.
d) Previdenza complementare. Decisa accelerazione nello sviluppo della previdenza complementare ed estensione della stessa al settore pubblico.
(1) Cfr. la “Proposta di deliberazione sull’assistenza economica e domiciliare”, redatta dall’Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale, in Prospettive assistenziali, n. 41, gennaio-marzo 1978 e “Comune di Torino – Determinazione dei criteri generali di erogazione e degli importi per l’assistenza economica”, Ibidem, n. 44, ottobre-dicembre 1978.
(2) Cfr. l’editoriale del n. 117, gennaio-marzo 1997, di Prospettive assistenziali, “Serve ancora la legge di riforma dell’assistenza sociale?”.
(3) Si tratta di uno dei documenti di base che costituiscono parte integrante dei lavori della Commissione Onofri.