In tema di Polis e Destino.
Nei film americani c’è, inscritta nella loro cultura cinematografica, la possibilità della difesa e della riscossa. Perlomeno lì, talvolta, ce la si fa a sopravvivere e il Male può essere sconfitto.
In Funny Games di Michael Haneke non c’è via d’uscita. Qui vince chi produce il male e infierisce sulle vittime.
Due estranei irrompono nella vita privata di una tipica famiglia nucleare. Spaccano le ossa al padre, torturano la madre, uccidono il cane (l’unico che aveva capito la loro essenza aliena), e – in un crescendo di tormentante violenza psicologica e fisica – ammazzano tutti uno dietro l’altro. Di più: li costringono a diventare nemici fra loro.
E’ impossibile difendersi quando l’irriducibile Altro e lo Straniero incompatibile violano lo spazio privato. L’avvertimento di tanti racconti di Stephen King (“Non aprire quella porta”) è disatteso. E se ne pagano duramente le conseguenze.
Ricordo dai miei studi degli anni ’70 il concetto di “coscienza possibile” (György Lukács). Il nucleo centrale di questo schema di analisi è che un autore non riesce ad andare oltre il limite che la sua coscienza gli concede sul piano cognitivo. L’approccio di Lukács era socio-economico: lui si riferiva alla coscienza di classe. Tuttavia il concetto può benissimo traslare su un altro piano ed illuminarlo.
Per Michael Haneke il suo film intende rappresentare la violenza nella rappresentazione cinematografica moderna: la sua corazza ideologica gli fa vedere solo questo aspetto.
A me, invece, sembra che il film sia anche una metafora fortissima ed estremamente precisa degli effetti dovuti alla invasione socioculturale di chi ha una concezione assolutamente altra riguardo all’organizzazione familiare, agli affetti, alle sensibilità individuali, alle relazioni intime che la storia ha costruito dentro i nostri universi psicologici.
Gli assassini vincenti sono passati da un pertugio del recinto. Mentre gli abitanti del luogo avevano solo un telefono e il desiderio di stare assieme fra loro e con gli amici. Non avevano alcun strumento di difesa e, dunque, sono destinati a soccombere.
Prima di morire si sente la domanda: “Sono andati via?”
No, non sono andati vita.
Ormai sono fra noi: stanno solo andando in un’altra casa.
Nessun film, a mia memoria, riesce a rendere l’inquietudine in un modo così profondo ed insopportabile. E a rappresentare l’nconsapevolezza del destino che abbiamo contribuito a creare