La verità è che un pezzo importante della sinistra italiana fatica maledettamente a fare i conti con la società globale. Chiede che il lavoro torni al centro dell’ agenda politica ma stenta a comporre una nuova mappa delle disuguaglianze, ha una conoscenza limitata della condizione lavorativa moderna e delle sue mille sfaccettature. Il suo resta un laburismo degli insider.
Non è certamente un caso, infatti, la sottovalutazione che da anni la sinistra fa del caso Prato e più in generale della presenza cinese in Italia. Nella città toscana si scoprono a ritmo continuo laboratori clandestini in cui lavorano in condizioni di schiavitù cittadini asiatici che non sanno neppure di trovarsi a Prato.
C’è stata una mobilitazione o anche solo un appello di intellettuali indignati? Non ce n’ è traccia, tutto è stato lasciato alla destra che ha conquistato alla grande il Comune. L’ intellighenzia di sinistra vuole davvero ridare centralità al lavoro debole?
E allora perché non interrogarsi (e indignarsi) sulla condizione di qualche milione di partite Iva costretto a vivere sul mercato in regime di mono-committenza, senza tutele e con il rischio di avere a fine carriera (si fa per dire) una pensione da fame? Anche in questo caso si tratta evidentemente di lavoratori considerati di serie B e quindi non degni di attenzioni e appelli.
Meglio lasciarli alla destra. Se non si possiede una mappa aggiornata del lavoro si finisce anche per discriminare (intellettualmente, per carità) tra alimentaristi e metalmeccanici. Perché le deroghe e le flessibilità ampiamente negoziate per i primi, diventano un viatico al fascismo se applicate ai secondi?
E perché i lavoratori siderurgici garantiscono alle loro controparti il massimo utilizzo degli impianti e la massima flessibilità senza che nessuno li avverta di preparare così il tramonto della democrazia repubblicana? Un mese fa, non un secolo fa, i lavoratori della ceramica hanno sottoscritto un’ intesa che permette alle imprese di modulare l’ orario settimanale in presenza di esigenze produttive temporanee, tecnologiche e organizzative.
Non si sono resi conto i sindacalisti della Cgil, che pure hanno firmato l’ intesa, che stavano demolendo«un secolo di conquiste di civiltà»? Infine i chimici, categoria che Sergio Cofferati conosce benissimo per averne orientato negli Anni 80 la cultura contrattuale in chiave pragmatica in competizione intellettuale con i metalmeccanici torinesi di allora.
Ebbene le aziende chimiche possono spalmare i turni su 4, 5 o 6 giorni con orari più o meno elevati a seconda delle necessità produttive. E anche in questo caso a nessuno è venuto in mente un paragone con la temperie che rese possibile il delitto Matteotti.
Al di là delle polemiche cercare di ri-comporre una mappa aggiornata delle disuguaglianze e delle soluzioni contrattuali non ha la finalità di contrapporre lavoratori a lavoratori. Serve solo a dimostrare come l’ ideologia ai tempi della concorrenza globale non aiuti e rischi di assomigliare alla retorica dell’ ovvio.
Serve anche a sostenere che non esiste in linea di principio negoziato o accordo che un sindacato non possa sottoscrivere. Pessime intese si sono rivelate nel tempo dei buoni compromessi e viceversa. Dipende di volta in volta dai rapporti di forza, dai temi in discussione e soprattutto dalle alternative che si hanno a disposizione.
La società globale – e non Marchionne – obbliga tutti a essere pragmatici e a stilare un alfabeto dei diritti e delle tutele diverso da quello del passato. Si tratta di provarci.
Dario Di Vico