La Procura di Roma ha chiuso le indagini sull’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso nel gennaio 2016 in Egitto. A rischiare il processo sono quattro agenti dei servizi segreti egiziani: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Agli indagati il procuratore Michele Prestipino e il pm Sergio Colaiocco contestano, a vario titolo, i reati di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali e omicidio. Per un quinto agente, Mahmoud Najem, i pm hanno chiesto l’archiviazione. La notifica è avvenuta «con rito degli irreperibili» direttamente ai difensori di ufficio perché dal Cairo non è mai stato comunicato il domicilio dei quattro. Ora gli indagati e i loro difensori hanno venti giorni di tempo per farsi ascoltare o per depositare una memoria sui fatti contestati. Poi i magistrati procederanno. Dalle indagini emerge che Regeni è stato seviziato per giorni con particolare ferocia. Vere e proprie torture avvenute utilizzando «strumenti taglienti e roventi». Da qui, le numerose lesioni al capo, al volto, sul dorso e in diverse parti del corpo. Torturato «attraverso ripetuti urti ad opera di mezzi contundenti (calci o pugni e bastoni e mazze) e meccanismi di proiezione ripetuta del corpo dello stesso contro superfici rigide ed anelastiche».
Il testimone che ha visto Regeni in catene e torturato
La Procura di Roma ha raccolto le dichiarazioni di due testimoni oculari che hanno visto Giulio Regeni in due distinte caserme delle forze di sicurezza egiziane. Uno, la sera stessa del sequestro, il 25 gennaio 2016; l’altro qualche giorno dopo, in catene e con evidenti segni di violenza sul corpo. I testimoni sono stati rintracciati grazie alle indagini difensive dei familiari di Regeni, con l’avvocato Alessandra Ballerini. Il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco li hanno chiamati, a protezione della loro identità e sicurezza, con i nomi di copertura Delta e Epsilon. Nella caserma di Lazoughly c’era il testimone Epsilon che, rintracciato e interrogato il 29 luglio scorso, ha raccontato di avere lavorato per 15 anni nella struttura «dove Regeni è deceduto», cioè «nella sede della National security che si trova all’interno del ministero degli Interni e che prendeva il nome della via: si chiama struttura Lazoughly, direzione Lazoughly». Si tratta, dice Epsilon, di «una struttura in una villa che risale ai tempi di Abd Al Naser, che poi è stata sfruttata dagli organi investigativi. Sono quattro piani e il piano d’interesse è il primo, la stanza è la numero 13… Quando viene preso qualche straniero sospettato di tramare contro la sicurezza nazionale viene portato in quella sede lì. Era il giorno 28 o 29 (gennaio, ndr), ho visto Regeni in quell’ufficio 13 e c’erano anche due ufficiali e altri agenti, io conoscevo solo i due ufficiali. Entrando nell’ufficio ho notato delle catene di ferro con cui legavano le persone… Lui era mezzo nudo nella parte superiore, portava dei segni di tortura e stava blaterando parole nella sua lingua, delirava… Era un ragazzo magro, molto magro… Era sdraiato steso per terra, con il viso riverso… L’ho visto ammanettato con delle manette che lo costringevano a terra… Ho notato segni di arrossamento dietro la schiena ma sono passati quattro anni, non ricordo bene i particolari. Non l’ho riconosciuto subito, ma cinque o sei giorni dopo, quando ho visto le foto sui giornali, ho associato e ho capito che era lui» [Bianconi, CdS].
L’ha ripubblicato su Il mio viaggio.
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