L’ EVOLUZIONE NORMATIVA DEL DISTRETTO FRA LA SANITA’ ED IL SOCIALE CON RIFERIMENTO AL SERVIZIO SOCIALE PROFESSIONALE, di LUIGI COLOMBINI, 19 marzo 2021

L’ EVOLUZIONE NORMATIVA DEL DISTRETTO FRA LA SANITA’ ED IL SOCIALE CON RIFERIMENTO AL SERVIZIO SOCIALE PROFESSIONALE

di LUIGI COLOMBINI

Già Docente di Legislazione ed Organizzazione dei Servizi Sociali presso Università Statale Roma TRE, corsi DISSAIFE e MASSIFE

Collaboratore del Sindacato Nazionale Unitario Assistenti Sociali – SUNAS – e del Centro Studi IRIS Socialia e redattore di OSSERVATORIO LEGISLATIVO SUNAS

Responsabile “Rassegna normativa” di WELFORUM

PREMESSA

A distanza di cinquanta anni dall’istituzione delle Regioni, quarantadue anni dalla prima legge di riforma sanitaria, trenta anni dalla legge di riforma delle autonomie locali, e venti anni dalla legge quadro sul sistema integrato degli interventi e servizi sociali, il distretto, inteso nella sua ordinaria concezione di proporsi quale “struttura tecnico-­funzionale più prossima all’utente del servizio” è venuto a configurarsi quanto a dimensione e funzione, in un suo «ubi consistam” al fine di rispondere sia ai principii di efficacia, efficienza, adeguatezza territoriale ed amministrativa, sia alle esigenze dei cittadini da servire.

Occorre anche precisare che le Regioni ancor prima della leg­ge di riforma sanitaria n.833/78 avevano ipotizzato una organiz­zazione territoriale dei servizi sanitari, sociali e scolastici proprio sulla base di una scelta di fondo ineludibile già sopra ricordata: la consistenza media dei comuni (con il 75% al di sotto dei 5.000 abitanti) non poteva in alcun caso consentire una capillarizzazione diffusa coincidente con il territorio di ogni singolo comune, così come le megalopoli richiedevano senz’altro una suddivisione tecnico-funzionale dei servizi sul territorio. Analogamente non era ipotizzabile ripercorrere il modello provinciale, proprio dello Stato e degli Enti assistenziali nell’organizzazione periferica dei servizi.

Pertanto, a fronte della scelta dell’associazionismo intercomu­nale in grado di garantire la più opportuna efficacia quanto a pro­grammazione territoriale e gli interventi e realizzazione dei servizi sociali, era anche essenziale prevedere una area più prossima ai bisogni dei cittadini, e quindi realizzare servizi ed interventi alla “porta del cit­tadino”.

D’altronde tale prospettiva era chiaramente collegata a quan­to veniva progettato intorno alla necessità di una territorializzazione degli interventi, di evitare le correnti di ricovero e di promuovere la “democrazia di territorio e di prossimità” basata sulla partecipazione e sul ruolo della società civile nelle sue espressioni organizzate, e quindi servizi ed inter­venti rispondenti alle aspettative ed alla esigenze della popolazione.

D’altra parte le Regioni, nell’ambito delle leggi istitutive delle unità sanitarie locali hanno sia pure in vario modo affrontato il te­ma del distretto, in ciò riprendendo in parte le pregresse leggi re­gionali (per le Regioni che l’hanno fatto) relative alla istituzione dei consorzi socio-sanitari, e dall’altra, a quanto in prospettiva si proponevano di attuare, una volta emanata la legge nazionale di riforma della assistenza.

Il livello distrettuale, pertanto, ha rappresentato il primo livello di or­ganizzazione capillare, funzionale ed adeguata dei servizi sociali e sanitari, dove realizzare concretamente ed operativamente il coordinamento e l’integrazione fra il versante sanita­rio e il versante sociale.

Sia nelle leggi regionali istitutive delle Usl, sia nei piani socio­sanitari è stato pertanto affrontato il tema distrettuale, e dall’esame del­la documentazione normativa, anche tenendo conto dell’apporto che sul piano amministrativo e di organizzazione interna hanno dato le Usl e gli enti locali, con esperienze significative, si possono trarre le linee portanti che sono a monte della progettualità opera­tiva del distretto:

– l’erogazione dei servizi e degli interventi a livello distrettuale deve essere compatibile con le esigenze tecniche e con l’osservanza del rapporto costi-benefici;

– il distretto deve essere individuato quale sede privilegiata per la partecipazione organizzata dei cittadini e delle forze sociali, e dove si esprime la già ricordata democrazia di prossimità e di territorio;

– i servizi e gli interventi sono aggregati per funzioni omoge­nee, su un livello orizzontale, in connessione con i progetti-obiettivo e con le specifiche aree di intervento;

– l’attività di prevenzione è particolarmente privilegiata al li­vello distrettuale, sulla base di un coordinato apporto di interventi sia sanitari che sociali;

– nel distretto si perseguono con maggiore efficacia gli obietti­vi di coinvolgimento della comunità allo sviluppo ed all’organizzazione dei servizi socio-sanitari, sia con l’ap­porto del volontariato che trova sedi adeguate per la sua esplica­zione, sia con l’apporto del «privato sociale” in senso più ampio.

In base all’analisi della prima legislazione regionale relativa al di­stretto, i riferimenti di base per la loro organizzazione risultano es­sere:

– la popolazione, articolata per fasce di età;

– il territorio e la densità demografica;

– la rete viaria e lo stato delle comunicazioni;

– la presenza dei presidi sanitari e socio-assistenziali;

– la presenza delle strutture scolastiche;

– il consolidato storico-culturale.

E’ quindi su tale presupposto che le Regioni hanno posto ma­no, alla luce della potestà legislativa loro attribuita, ad una ricca fioritura di modelli di distretto, che alla fine hanno determinato un “comun denominatore” idoneo a definire un tipo di distretto ideale.

Se questo ha rappresentato il “prima”, il seguito, per come si è venuta evolvendo sul piano statale la legislazione sociale e sa­nitaria, ha determinato una configurazione diversa della dimensio­ne funzionale ed operativa del distretto.

IL DISTRETTO NEL CONTESTO DELLA “POLITICA DELLE RIFORME”

Una preliminare fase di elaborazione legislativa sul distretto coincide con l’avvio della “politica delle riforme” fra il1968 ed il 1978 e con l’istituzione delle Regioni: sono questi gli anni in cui viene approvata la riforma ospedaliera (legge n. 132/68, la prima legge sulle persone con disabilità (legge 118/1971), la legge sulle Comunità montane (legge n. 1171/1971), la legge sugli asili nido (Legge n, 1102/1971), la legge sui consultori familiari (legge n. 405/1975), la legge sulla salute mentale “Basaglia” (legge n. 180/1978), la legge sulla procreazione responsabile e l’IVG (legge n. 194/1978) e la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (legge n. 833/1978).

Ciascuna Regione diventa un laboratorio normati­vo per la concreta attuazione di servizi ed interventi che, supe­rando le vetuste impostazioni burocratiche proprie dello Stato centrale e promotore di centralità, tende a rinnovare tutto il sistema di offerta dei servizi sanitari, e vengono avviate specifiche sperimentazioni innovative, fra cui va ricordata l’iniziativa della Regione Umbria sul distretto socio-sanitario del Trasimeno (anno 1975).

Vari sono i denominatori comuni della normativa regionale in materia dei servizi socio-sanitari, che hanno anticipato anche il legislatore statale:

– l’ente locale è il referente primario locale per l’attuazione dei servizi e degli interventi;

– l’ambito comprensoriale, o comunque l’ambito sovraccomu­nale rappresenta il punto nodale per lo svolgimento sul piano am­ministrativo e funzionale dei servizi e degli interventi, anche con riferimento ai criteri fondamentali, propri di una buona ammini­strazione, di armonizzare il rapporto efficacia efficienza degli in­terventi con un adeguato rapporto costi-benefici;

– il livello di più immediata presenza e risposta dei servizi di base va comunque riferita all’area del distretto;

– al livello dell’ambito del distretto, tenuto conto delle competenze che già erano degli enti locali, riferite sia alla sanità (prevenzione, profilassi, igiene del suolo e dell’abitato, assisten­za sanitaria di base e pronto intervento) che all’assistenza, la sua dimensione operativa comprende tutti i servizi sanitari e sociali di base.

Secondo una lettura ragionata della legislazione regionale, è infatti a tale livello che viene ipotizzata la rete degli asili nido, dei consultori familiari, delle residenze protette, della assistenza domi­ciliare, dell’assistenza psichiatrica, della assistenza infermieristica, dei certi diurni, ecc.

Pertanto, il disegno volto a prefigurare il distretto quale livello organizzativo di base per l’erogazione dei servizi sociali “alla porta del cittadino”, ha condotto alla definizione di un “mo­dello”, desunto dalle varie leggi regionali, in cui potevano essere riassunte le seguenti funzioni:

1 – Funzione promozionale, di informazione ed educativa

L’intento di rendere i servizi “dinamici” e non statici (in una sorta di attesa messianica dell’utente) ha condotto il legislatore re­gionale a individuare una serie di interventi e servizi volti ad avvi­cinarli ai cittadini; pertanto nell’area distrettuale si è individuata la sede di “primo ascolto” e di accoglimento della domanda, e quindi di orientamento dell’utenza, secondo lo svolgimento di ben definite attività che sono le seguenti:

– promozione sociale dei cittadini;

– informazione e segretariato sociale;

– educazione sociale e sanitaria dei cittadini;

– assistenza amministrativa agli utenti;

– orientamento per le prestazioni non erogate al livello zonale.

2 – Funzione sanitaria

Il configurarsi del distretto come area di più immediata pros­simità ai cittadini, ha condotto ad una analisi delle funzioni sani­tarie di più capillare presenza e di continuità del servizio.

Pertanto al livello distrettuale sono state individuare le aree della prevenzione, della diagnosi e cura e della riabilitazione.

Per ciò che concerne l’area della prevenzione, al livello distret­tuale sono state, fra le altre, previste le seguenti funzioni:

– prevenzione individuale e collettiva, con particolare riguar­do ai soggetti a rischio e per gruppi di rischio, mediante controlli sistematici sia per gruppi che nelle strutture collettive;

– medicina scolastica e medicina sportiva, nonché tutela sani­taria delle attività sportive e fisico-ricreative;

– svolgimento dei servizi e degli interventi di igiene mentale;

– prevenzione delle tossicodipendenze;

– prevenzione e protezione sanitaria materna;

– prevenzione e protezione dell’età evolutiva;

– tutela della salute degli anziani e dei soggetti in condizione di minorazione fisica, psichica e sociale;

– tutela della procreazione libera e responsabile.

L’area della diagnosi e della cura è stata caratterizzata da un accurato esame delle attività di primo livello, e secondo la analisi della legislazione regionale, al livello distrettuale sono state collo­cate le seguenti funzioni:

– assistenza infermieristica;

– attività poliambulatoriale specialistica;

– prelievi per indagini di laboratorio;

– distribuzione dei farmaci;

– guardia medica;

– trasporto infermi;

– pronto soccorso;

– servizio geriatrico distrettuale;

– psichiatria e neuropsichiatria infantile;

– assistenza socio-sanitaria alle famiglie;

– assistenza socio-sanitaria agli anziani;

– assistenza domiciliare e ambulatoriale psichiatrica;

– assistenza odontoiatrica;

– attività di controllo e cura dei dimessi dagli ospedali e dei cronici.

3 – Funzione della riabilitazione

Per ciò che concerne la riabilitazione, tale area è stata notevol­mente negletta nella legislazione regionale sul distretto, essendo molto limitativa la individuazione di attività riabilitative, confina­te nell’ambito della attività ambulatoriale e domiciliare di più am­pia dimensione collocata nell’area della diagnosi e della cura.

4 – Funzione consultoriale

Già con la legge istitutiva dei consultori familiari fu preconiz­zata la presenza di ciascun consultorio nell’area del distretto socio-sanitario, in cui venivano peraltro a considerarsi le attività di tute­la sanitaria, psicologica e sociale per ciò che concerne la mater­nità, l’infanzia, la coppia, e i minori.

Inoltre l’attività propria di consultazione, tipica di detti presi­di, in alcune Regioni è stata estesa allo svolgimento degli interven­ti di salute mentale sul territorio.

Sempre in riferimento allo svolgimento di attività consulto­riali, queste da alcune Regioni sono state previste anche per ciò che concerne l’assistenza agli anziani.

5 – Funzione socio-assistenziale

Con le pregresse leggi regionali relative alla sanità e all’as­sistenza molte Regioni, istituendo le unità socio-sanitarie locali, avevano individuato nell’ambito distrettuale la sede ottimale per lo svolgimento coordinato ed integrato delle attività sanitarie e delle attività socio-assistenziali di base.

Pertanto dalla legislazione regionale susseguente è venuto fuo­ri con maggior evidenza il quadro delle attività e degli interventi e servizi socio-assistenziali da esplicare al livello distrettuale.

Il livello territoriale individuato nel distretto, secondo una lettura ragionata delle varie leggi regionali, consente di giungere ad un modello, da cui si possono desumere quelle attività e quei servizi che se fossero stati effettivamente realizzati avrebbero senz’altro contribuito ad un dispiegarsi articolato e coordinato di specifiche politiche (intese come scienza ed arte di governo) sociali adeguate alle esigenze dei cittadini.

Si va infatti dalla promozione ed aggregazione sociale, anche nella direzione dello svolgimento di attività antiemarginanti e di socializzazione, allo svolgimento di attività socio-assistenziale polivalente di base, come il servizio sociale professionale, l’erogazione del minimo vitale, le attività di sostegno alla famiglia, intendendo per esse l’assistenza psicologica e sociale, l’assistenza integrativa e di consulenza psicologica alle famiglie adottive ed affidatarie, non­ché l’assistenza e la protezione dell’età evolutiva.

Per ciò che concerne le persone con disabilità, il distretto è individuato quale livello di elezione per lo svolgimento delle attività so­cio-assistenziali, sia ai fini della loro socializzazione che degli inse­rimenti lavorativi ed occupazionali.

In merito allo svolgimento degli interventi rivolti agli anziani, il livello distrettuale è individuato quale ottimale sia per tutti gli interventi di socializzazione e di assistenza domiciliare, sia quale riferimento per la collocazione delle strutture residenziali, quali le residenze protette e le residenze assistite.

L’ampiezza territoriale del distretto, inteso anche quale poten­ziale ambito di risorse, è individuata anche quale sede per lo svol­gimento dell’assistenza abitativa.

IL DISTRETTO NELLA PRIMA RIFORMA SANITARIA

Cone è noto, la legge n.833/78, sul Servizio Sanitario Nazionale, intervenuta dopo 41 anni da quanto erano state preconizzate dalla “Commissione D’Aragona” del 1947, ha istituito le Unità Sanitarie Locali, intese quale strumento operativo dei Comuni associati per la programmazione locale, la gestione ed il controllo delle politiche sanitarie locali.

In tale contesto, anche in relazione a quanto già avviato dalla legislazione regionale già con il DPR n. 616/77, è stato introdotto il criterio della definizione degli “ambiti territoriali adeguati“ per la gestione dei servizi ed interventi assistenziali e sanitari.

La legge 833/78 ne ha confermato l’orientamento, prevedendo che le Regioni avrebbero definito i criteri per l’articolazione delle USL in distretti sanitari.

A tale pro­posito, occorre altresì rilevare che le Regioni non hanno individuato un comune rapporto popolazione da servire/distretto. In relazione alla specificità del territorio regionale, del numero dei Comuni, dell’entità della popolazione, della sua distribuzione e densità, è stata posta mano ad una accurata individuazione delle aree distrettuali, anche in relazione alla presenza di ulteriori entità istituzionali esistenti, quali le comunità montane.

Da quanto illustrato nella Tab. 1, si ricava che la disomogenea realtà comunale e le caratteristiche geografiche ed orografiche delle varie Regioni, hanno indotto a prefigurare un rapporto popo­lazione-distretto in maniera differenziata.

Tabella 1

REGIONE
Soglia min. per area urbana – n° abitantiSoglia minima per area extraurbana n° abitanti
Molise – Umbria Abruzzo
4.000 – 10.000 5.000 – 10.000
Calabria, Friuli, Liguria, Lombardia, Bolzano Trento
5.000 – 15.000
Toscana Sardegna Marche, Puglia Sicilia Calabria Veneto Abruzzo, Molise Friuli, Lombardia





10.000 – 20.000 15.000 – 40.000
5.000 – 25.000 5.000 – 30.000 10.000 10.000 – 20.000 10.000 – 25.000 10.000 – 30.000

1. L’organizzazione del personale

Dall’esame delle prime leggi regionali relative al distretto, si rileva che all’inizio è stata scelta l’ipotesi di organizzazione del lavoro per équipe, oppure mediante unità operative sulla base del criterio della interdisciplinarietà e della globalità dell’inter­vento (Calabria, Lombardia, Marche, Mouse, Piemonte, Umbria, Valle d’Aosta ) o della specificità (Toscana). Per ciò che concerne l’aspetto relativo alla dipendenza degli operatori del di­stretto, le Regioni adottarono diverse soluzioni: secondo alcune Regioni il personale sui piano organizzativo dipende dal coordi­natore del distretto o dai responsabile sanitario del distretto, mentre sul piano funzionale dipende dal servizio competente (Basilicata, Friuli, Molise, Piemonte). In Umbria non sono previste dipendenze gerarchiche, perché gli operatori stessi sono caratterizzati dal fatto di essere una unità integrata ad organizza­zione funzionale.

2. Il coordinatore

Nella stagione della collegialità gestionale, di cui era antesi­gnano il Comitato di gestione delle USL, il problema del coordi­namento del distretto fu affrontato in maniera diversificata dalle Regioni, anche in presenza di pressioni corporative della classe medica.

Alcune (Calabria, Friuli, Molise, Sicilia, Veneto), hanno previsto la figura del “responsabile sanitario”, a cui è affidato il coordinamento del distretto; con maggiore sottigliezza l’Umbria ha previsto il “medico coordinatore”, specificando che co­munque tale incarico di coordinamento non comporta alcuna modificazione nella posizione giuridica posseduta; inoltre è precisato che tale ruolo anticipa la figura del “medico di comu­nità”.

Per la provincia di Bolzano la funzione di coordinatore è espletata dal medico generico incaricato di svolgere funzioni di sanità pubblica.

Il “coordinatore del distretto” è indicato da Basilicata, Piemonte, Toscana, Valle d’Aosta.

Requisito essenziale è comunque quello dell’osservanza del tempo pieno, mentre la dipendenza dalle USL è stata prospettata in vari modi: dipende dall’Ufficio di direzione (Valle d’Aosta), di­pende dal coordinatore sanitario (Veneto), fa capo ai vari servizi della USL (Calabria, Sicilia).

La disomogeneità delle scelte, la difficoltà di individuare con chiarezza di ruoli e funzioni la figura del coordinatore (da inten­dere come figura destinata al superamento della gerarchia e della organizzazione piramidale del lavoro), l’assenza di una funzione di indirizzo e coordinamento da parte dello Stato hanno comunque condotto ad una condizione di disagio e di scarsa incisività del distretto, nella geografia istituzionale e sanitaria del Paese, a parte validi esempi portati avanti da alcune Regioni.

3. Il distretto dal 1985 al 1992

Nel corso del suddetto periodo, a fronte di una attività pro­grammatoria portata avanti dalle Regioni più avanzate (Emilia Romagna, Friuli V.G., Marche, Piemonte, Toscana, Umbria, Val­le d’Aosta, Veneto), il distretto socio-sanitario, quale concreta ipotesi di organizzazione locale dei servizi di prossimità, aveva la dovuta considerazione. Purtroppo, a livello centrale, si sono di­sposti alcuni provvedimenti che hanno bruscamente interrotto qualsiasi processo di integrazione socio-sanitaria e di definizione del di­stretto socio-sanitario.

Il primo grave provvedimento in tale direzione è il DPCM dell’8.8.85, con il quale è stato disposto un “Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni in materia di attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali”, e con il quale si è brutalmente sancita la separazione fra i servizi socio-assistenzia­li a rilievo sanitario, e gli interventi socio-assistenziali propri dei Comuni.

Con tale provvedimento, infatti, si è operata quindi l’interruzione del processo, faticosamente portato avanti dalle Regioni più avan­zate, di prefigurare l’unità gestionale e programmatoria dei servizi sociali e sanitari, attraverso l’associazionismo obbligatorio dei co­muni e l’utilizzazione di un unico strumento operativo, attraverso la famosa unità locale con le tre “esse”, e si è nei fatti promossa la frammentazione locale dei servizi , lasciata alla discrezionalità dei singoli Comuni e delle USL.

Sul fronte legislativo, infatti, si sono determinati provvedi­menti volti a distinguere fra interventi socio-assistenziali a rilievo sanitario, e in quanto tali gestiti dalle USL, e interventi socio-assi­stenziali gestiti dai comuni.

In tale contesto la dimensione distrettuale dei servizi socio-sanitari secondo la precedente impostazione è venuta a deteriorar­si, anche se alcune Regioni hanno ribadito la validità della prima scelta (Lombardia, Toscana, Umbria, Veneto).

L’altro provvedimento che ha sancito a sua volta la fine dell’ associazionismo obbligatorio fra i Comuni per la gestione dei ser­vizi sociali in senso lato, così come previsti dal DPR n. 616/77 al­l’art. 25, è stata la legge n. 142/90 sull’ordinamento delle autono­mie locali.

Infatti, nel riconoscimento statutario dell’autonomia comu­nale, sarebbe stato addirittura costituzionalmente non corretto imporre una volontà esterna e cogente rispetto alla libertà di scel­ta all’associazionismo; conseguenza di tale disposizione è stata la soppressione delle associazioni intercomunali, e la riconduzione agli Enti locali delle competenze in materia socio-assistenziale, determinando quindi una situazione di notevole disagio e difficoltà.

In tale periodo le leggi regionali di riferimento sull’assistenza, con particolare riferimento alla Toscana, al Piemonte e alla provincia di Bolzano, hanno quindi condotto ad una “rivisitazione” (che comunque avrebbe dovuto essere operata anche dalle altre Regioni) dell’assetto istituzionale e del ruolo dei Comuni all’interno del sistema assistenziale, con conseguenze anche sull’organizzazione distrettuale.

LA DIMENSIONE DEL DISTRETTO DOPO LA SECONDA RIFORMA

Il provvedimento che ha determinato una ulteriore modificazione dell’assetto istituzionale del sistema sanitario ed as­sistenziale è stato il D. lgs. n. 502/92, relativo alla costituzio­ne delle Aziende sanitarie locali e delle Aziende ospedaliere.

Nell’ambito di una competenza propria degli Enti locali in materia di servizi sanitari e sociali, l’unità sanitaria locale o l’unità socio-sanitaria, come già indicato sopra, rappre­sentava la “struttura operativa dei comuni” per la gestione della salute; in tale contesto la legislazione regiona­le è comunque intervenuta per la definizione degli ambiti territo­riali, e per la definizione dei criteri organizzativi.

Peraltro, con il d. lgs.n.502/92, a fronte dell’esperienza fatta in materia di sanità conla conduzione collegiale (con la ef­fettiva priorità, quanto a gestione, data alla rappresentanza politi­ca piuttosto che alla rappresentanza tecnica), si è giunti alla rifor­ma della riforma: non va dimenticato che nella riorganizzazione della sanità, il dicastero della Sanità in quegli anni è stato affi­dato proprio ai rappresentanti del partito che aveva votato contro la riforma sanitaria.

L’aver sottratto ai Comuni la competenza in materia sanitaria ha portato ad una scis­sione traumatica fra il versante sanitario (a cui è stata aggiunta una piccola quota di assistenza a rilievo sanitario) e il versante so­cio-assistenziale.

Le ASL, secondo la strada già indicata dal citato DPCM dell’8.8.1985, hanno proceduto alla gestione dei servizi sanitari e di quelli assistenziali a rilievo sanitario (con particolare riferimen­to ai tossicodipendenti, ai malati di mente, agli handicappati e agli anziani non autosufficienti), secondo una gestione monocrati­ca e per budget di spesa prefissati, secondo quanto previsto dalla normativa generale, ed hanno articolato il territorio della ASL in distretti da intendere quali “espressioni territoriali” da esse dipen­denti.

I Comuni han­no confermato la gestione dei servizi sociali, secondo le compe­tenze loro riconosciute.

Pertanto ne è scaturito un panorama istituzionale caratteriz­zato da una doppiezza obliqua con una competenza socio-sanita­ria, da una parte, affidata alle ASL, e una competenza socio assi­stenziale affidata ai Comuni.

Pertanto, tutti i presupposti che all’epoca della riforma (la prima) erano invocati, fra i quali uno dei più importanti era “un territorio, un governo” sono stati dimenticati, e solo alcune Regioni (Emilia Romagna, Toscana, Lombardia, Umbria e Piemonte) hanno portato avanti una politica volta a promuovere ac­cordi di programma per la gestione integrata dei servizi sociali e sanitari.

Infatti, a fronte della pregressa gestione delle USL, basata sulla collegialità e sulla rappresentanza popolare attraverso il Comitato di gestione e l’Assemblea, è stata nei fatti sottratta ai Comuni la competenza in materia sanitaria (a parte una loro partecipazione alla programmazione attraverso la Confe­renza dei Sindaci), ed è stato sancito il ruolo del Direttore generale della ASL, quale organo monocratico nominato dalla Regione per la gestione dei servizi sanitari e sociosanitari. In tale contesto, la scelta e l’indivi­duazione dei distretti sanitari è stata demandata alla ASL, sulla base dei criteri disposti dalla Regione, e sentita la Conferenza dei sindaci.

Le conseguenze di tale provvedimento, pertanto, hanno condotto ad uno sfoltimento massiccio della presenza delle circa 670 USL, e la loro sostituzione con circa 250 ASL.

I processi di integrazione socio-sanitaria, pur avviati in molte Regioni, hanno avuto una interruzione, e la prospettiva del precedente disegno che portava alla coordinata offerta dei servizi sanitari e sociali, attraverso il distretto socio-sanitario, non si è realizzata.

L’area distrettuale sanitaria , a sua volta, si è venuta a modificare profondamente, e, anche se i distretti sanitari sono stati con­fermati nella loro funzione, ne è stata prevista una diversa configurazione.

1. Le leggi regionali sul “nuovo” distretto: ridefinizione delle aree

A seguito delle disposizioni previste dal decreto legislativo n. 502/92, le Regioni hanno emanato proprie norme di attua­zione, e, in tale contesto, hanno proceduto alla ridefinizione del distretto, nonché all’individuazione dei loro responsabili.

La rivisitazione dell’area distrettuale ha condotto ad una riclassificazione delle zone, con la ulteriore individuazione delle soglie minime da osservare.

Si è fatto riferimento alle aree ad alta densità abitativa, alle aree montane e ad aree intermedie, nella prospettiva, comunque, di mantenere un rapporto popolazione/distretto in linea con le esigenze di una effettiva osservanza della sua originaria e adeguata funzione di offerta dei servizi e degli interventi “alla porta del cittadino”.

Più in particolare, oltre ai richiami specifici sul distretto, per le Regioni che l’hanno fatto (a parte quanto indicato nei piani sa­nitari regionali), e a fronte della necessità di definire le nuove aree distrettuali, le Regioni, per come si evince dalla Tab. 2, hanno de­finito le dimensioni in modo disomogeneo.

Tabella 2

REGIONE
Soglia minima Aree ad alta densità abitativa N° abitantiSoglia minima Aree Montane N° abitantiSoglia minima altre Aree N° abitanti
Marche
Piemonte
Basilicata
Emilia R. – Lazio
Lombardia
Liguria
Marche
Lombardia Emilia Romagna Coinc. Comunità M. Marche
Piemonte
Campania
30.000 40.000 70.000 80.000 100.000 150.000








10.000 15.000










15.000 Fra 20.000 e 60.000 30.000
Basilicata, Emilia R., Friuli, Lazio, Liguria,
Lombardia




40.000
Toscana
Puglia, Veneto
Sardegna


45.000 50.000 Coinc. ex USL

2. L’organizzazione del personale nel distretto

In un precedente studio sul distretto (che risale al 1985 e pubblicato sulla rivista “Autonomie e servizi sociali”) una particola­re attenzione fu conferita alla individuazione del personale, a fronte della copiosa documentazione regionale.

Nelle leggi regionali di attuazione del decreto legislativo n. 502/92, i riferimenti al personale sono più scarni; considerata co­munque la complessità della materia, si illustrano i dati essenziali che le Regioni hanno evidenziato sul problema.

La Basilicata individua nella flessibilità dell’organizzazione, adeguata ai bisogni di intervento, nei metodo di lavoro interdisci­plinare attraverso l’integrazione delle competenze e nella valoriz­zazione della funzione chiave dei medici di medicina generale, gli aspetti centrali dell’organizzazione distrettuale.

Secondo la Liguria nell’ambito del distretto sanitario di base operano i nuclei operativi che erogano le prestazioni in materia di prevenzione singola o collettiva, diagnosi e cura, riabilitazione ed educazione sanitaria.

Le Marche, il Molise, il Piemonte, la Puglia e il Veneto pun­tualizzano il ruolo del medico di famiglia per un efficace filtro del­la domanda socio-sanitaria, e per promuovere la continuità tera­peutica fra i diversi luoghi di trattamento; inoltre prevede la costi­tuzione di unità operative residenti o itineranti per le quali il di­stretto è inteso quale centro regolatore per le prestazioni erogate.

Rispetto alla precedente normativa, molto più ricca ed arti­colata, si desume, comunque, che due figure essenziali sono indi­viduate nell’ambito del distretto: il responsabile-coordinatore del distretto, e il medico di famiglia il quale, secondo il DPR n.484 del 22.7.96, relativo all’accordo collettivo nazionale con i medici di famiglia, è stato già individuato come facente parte del di­stretto.

La più puntuale individuazione del personale operante a li­vello di distretto, comunque, è demandata ai piani sanitari regio­nali nonché alla organizzazione propria di ciascuna ASL.

Si rileva, comunque, che non vi sono indicazioni certe sui parametri di riferimento operatori-utenti, e quindi sulla indivi­duazione delle figure professionali che in ogni caso dovrebbero far parte della rete distrettuale.

3. I Comuni, la partecipazione e il distretto

Nella prima legislazione regionale relativa alle USL, essendo queste strutture operative dei Comuni per la gestione della sa­lute, era pleonastico ipotizzare una più pregnante presenza dei Co­muni (che pur erano rappresentati nell’Assemblea e nel Comitato di gestione) nell’ambito del distretto.

In alcuni casi (Umbria, Toscana) furono ipotizzati comitati di distretto, a cui partecipavano le forze sociali dei Comuni di rife­rimento.

In ogni caso le esperienze partecipatorie sono state assoluta­mente defatiganti e non tali da determinare complessivamente una migliore organizzazione sanitaria, tanto che con leggi regio­nali relative alla tutela dei diritti dei malati, se ne è superata l’at­tenzione e l’importanza.

Con il d. lgs. n.502/92 , una volta mortificata la pre­senza dei Comuni nella gestione della salute, questa è stata par­zialmente recuperata nella “Conferenza dei Sindaci” e con più puntuali approfondimenti della sua funzione da alcune Regioni, quanto a contenuti e a capacità di incidenza sulla politica sanita­ria locale.

Al livello di distretto, essendo questo individuato come di­pendenza della ASL e ad essa collegato, la partecipazione, pur in­dividuata in maniera insoddisfacente e riferita più agli utenti-con­sumatori che come momento fondamentale di reciproca crescita civile (secondo i principi della democrazia partecipata), è stata ri­presa da alcune Regioni recuperando ai Comuni uno specifico ruolo nella Conferenza dei Sindaci di distretto.

In genere le funzioni sono quelle di prospettazione dei biso­gni sanitari, nonché di verifica sull’attività del distretto (Emilia Romagna, Friuli V.G.).

Le Marche accentuano il ruolo dei Sindaci nella assemblea dei Comuni del distretto, quale emanazione della conferenza dei Sindaci; oltre alle competenze già sopra individuate, si esprime anche sulla finalizzazione e sulla distribuzione delle risorse finan­ziarie.

In ogni caso, si tratta di conati scarsamente incidenti sul complesso problema della partecipazione, che sembra prevalente­mente orientato ad individuare altri interlocutori al di fuori dei Comuni (associazioni di utenti, volontariato, rappresentanti della tutela dei diritti) e già di per sé stessi in grado di costituirsi in un ruolo di partecipazione mediata.

Tenuto conto dell’importanza degli Enti locali in quanto esponenziali degli interessi della collettività locale, nonché di quanto già negli Statuti dei Comuni è indicato intorno al tema della salute e della sicurezza sociale, è comunque assolutamente necessario individuare un ruolo più pregnante dei Comuni nel­l’ambito di una partecipazione che non può essere solo illusoria, ma qualificarsi quale partecipazione programmatoria e di controllo.

IL DISTRETTO SANITARIO DOPO LA TERZA RIFORMA

Il riferimento statale più importante è costituito dal d. lgs. n. 229/99, che venti anni or sono ridefinì la terza riforma sanitaria, dopo le prime due (legge 833/78, d. lgs. 502/92), che ha ulteriormente definito il SSN, con l’obiettivo di recuperare la dimensione unitaria dell’organizzazione locale della sanità pubblica (prefigurando le “AUSL”, e reinserendo il ruolo e la funzione dei Comuni nella sanità, così brutalmente estromessa dalla seconda riforma. In tale contesto è stato altresì ridisegnato il distretto, nella prospettiva, a differenza del passato, di un suo rafforzamento in termini di territorio adeguato e di funzionalità.

  1. Un distretto “forte”

Rispetto alla precedente normativa, riprendendo anche quanto era stato indicato anche nella legge n. 595/1985, che prevedeva nella riorganizzazione del SSN il rilancio di distretto sanitario, ma tenendo anche conto dell’esperienza e dei risultati conseguiti nella prima fase della riforma, l’orientamento complessivo ha portato alla necessità della configurazione di un distretto adeguato, quanto a popolazione, territorio, alle esigenze di una effettiva governabilità; pertanto è stata prevista per il suo rinnovato modello, nell’atto aziendale della AUSL, una popolazione minima di almeno sessantamila abitanti, salva diversa disposizione della Regione, in considerazione delle caratteristiche geomorfologiche del territorio o della bassa densità della popolazione residente. Tale indicazione ha portato nei fatti a far coincidere l’area distrettuale con l’area delle vecchie “USL”, così che i distretti stessi sono calcolati in 610, rispetto ai 671 delle USL.

  1. Una programmazione adeguata

Uno degli aspetti più rilevanti del distretto consiste nella competenza e titolarità del distretto ad elaborare il “Programma delle attività territoriali”, in cui per la prima volta viene introdotto realmente il ruolo della ricerca socio-sanitaria e della necessaria organizzazione e definizione dei bisogni sanitari della comunità da servire, secondo i classici principi del concetto dell’intervento sociale anche in ambito sanitario, come preconizzava uno dei fondatori del SSN, il prof. Alessandro Seppilli.

Pertanto è stato anche introdotto il concetto di budget di salute, attribuendogli le risorse definite in rapporto agli obiettivi di salute della popolazione di riferimento. Nell’ambito delle risorse assegnate, il distretto è dotato di autonomia tecnico-gestionale ed economico-finanziaria, con contabilità separata all’interno del bilancio della unità sanitaria locale.

Il Programma delle attività territoriali (PAT), pertanto, costituisce il documento programmatico locale in cui devono essere previsti:

* la localizzazione dei servizi e dei presidi nel territorio di competenza;

* la determinazione delle risorse per l’integrazione socio-sanitaria e le quote rispettivamente a carico dell’unità sanitaria locale e dei comuni;

* la necessaria espressione di parere del Comitato dei Sindaci del distretto.

Il PAT, proposto nella sua articolazione e finanziamento, al Direttore Generale dell’ AUSL, deve da questi essere approvato, d’intesa, limitatamente alle attività sociosanitarie, con il Comitato medesimo e tenuto conto delle priorità stabilite a livello regionale.

  1. Il rafforzamento del ruolo dei Comuni

Al fine di superare la mortificante condizione dei Comuni, che dal d. lgs n. 502/92 erano stati di fatto estromessi dalla gestione della salute, ne è stato riconfermato il ruolo, prevedendo la costituzione, a livello di distretto, del Comitato dei Sindaci, che esprime parere sul Piano Attuativo Locale, e concorre alla verifica dei risultati delle attività previste.

  1. Le attività previste

Le attività previste nel Distretto, in base ad una analisi condotta sulla legislazione statale e regionale intervenuta nel corso dei venti ultimi venti anni, porta a definire il seguente prospetto:

In particolare è specificato che le attività più importanti del distretto sono:

  • governo unitario della domanda di salute;
  • attività di tutela della salute collettiva, in coordinamento con il Dipartimento di prevenzione;
  • accesso e presa in carico del bisogno dell’utente;
  • erogazione appropriata di interventi e servizi.
  • assistenza sanitaria di base;
  • assistenza specialistica ambulatoriale;
  • attività e progetti d’intervento per le cure domiciliari, con la necessaria integrazione socio-sanitaria;
  • attività finalizzate a garantire il diritto del cittadino all’eccesso ai servizi sanitari;
  • attività consultoriali;
  • attività sanitarie e sanitarie a rilievo sociale rivolte agli anziani, ai disabili, al disagio psichico;
  • integrazione operativa fra servizi sanitari e fra questi ed i servizi socio-assistenziali degli enti locali;
  • cure ambulatoriali e domiciliari e idonee risposte territoriali di tipo continuativo e diurno.

Tale succinta analisi delle attività svolte dal distretto sono andate via via a essere oggetto di ulteriori specificazioni, anche in relazione alla introduzione, nel 2007, della cosiddetta “casa della salute”, e dell’orientamento di alcune Regioni a prefigurare l’ospedale di comunità, quali presidi distrettuali in grado di fungere da filtro rispetto al ricovero ospedaliero ed a migliorare la qualità e l’efficacia degli interventi di prima istanza.

  1. Il direttore del distretto

L’analisi della normativa statale e regionale intorno al governo del distretto, porta a definire un modello di direzione basato sulla figura del direttore del distretto, e quindi il superamento di farraginose disposizioni che si riferivano alla figura del coordinatore, senza specificarne peraltro le funzioni.

Il direttore del distretto si configura come il “garante” del complesso delle attività sanitarie ed amministrative connesse allo svolgimento delle attività stesse.

I principali compiti del direttore del distretto sono:

  • analisi del fabbisogno e della domanda di assistenza sanitaria e socio-sanitaria della popolazione;
  • elaborazione della proposta relativa al Programma per le Attività Territoriali;
  • gestione, organizzazione e coordinamento delle risorse assegnate;
  • gestione del rapporto con i soggetti convenzionati;
  • coordinamento e concertazione coni responsabili di dei Dipartimenti territoriali e dei presidi ospedalieri;
  • coordinamento e concertazione per lo svolgimento dell’integrazione socio-sanitaria;
  • monitoraggio dell’attività.

Il direttore di distretto si avvale di un ufficio di coordinamento delle attività distrettuali, composto da rappresentanti delle figure professionali operanti nei servizi distrettuali. Sono membri di diritto di tale ufficio un rappresentante dei medici di medicina generale, uno dei pediatri di libera scelta ed uno degli specialisti ambulatoriali convenzionati operanti nel distretto.

Secondo il d. lgs. 229/99, l’incarico di direttore di distretto è attribuito dal direttore generale a un dirigente dell’azienda, che abbia maturato una specifica esperienza nei servizi territoriali e un’adeguata formazione nella loro organizzazione, oppure a un medico convenzionato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, da almeno dieci anni, con contestuale congelamento di un corrispondente posto di organico della dirigenza sanitaria.

LA LEGGE 328/2000 E L’AMBITO TERRITORIALE

A seguito della seconda e terza riforma sanitaria, la prospettiva iniziale del distretto sanitario e sociale inteso quale sede coordinata e funzionale dell’ insieme dei servizi e degli interventi sanitari e sociali è andata ad esaurirsi.

E’ emersa, comunque, la dimensione autonoma del comparto sociale, dotato di una sua specifica individualità e finanziamento, e quindi nelle condizioni di qualificarsi sul territorio di riferimento in una connotazione specifica.

La legge 328/2000, in tale contesto, ha sancito all’art. 8 la competenza della Regione a determinare, tramite le forme di concertazione con gli enti locali interessati, gli ambiti territoriali, le modalità e gli strumenti per la gestione unitaria del sistema locale dei servizi sociali a rete. E’ altresì specificato che nella determinazione degli ambiti territoriali, le Regioni prevedono incentivi a favore dell’esercizio associato delle funzioni sociali in ambiti territoriali di norma coincidenti con i distretti sanitari già operanti per le prestazioni sanitarie, destinando allo scopo una quota delle complessive risorse regionali destinate agli interventi.

Pertanto, con l’art. 8 della legge 328/2000 si è in effetti tenuto conto del maturato storico-politico-istituzionale portato avanti dalle Regioni, e si è confermata la validità della scelta dell’ambito territoriale quale riferimento funzionale fondamentale per lo svolgimento delle politiche sociali nella loro più larga accezione.

Dall’esame delle normative regionali intorno all’ambito territoriale, che sono intervenute nel corso degli anni dal 2003 al 2016, si conferma quindi il comune orientamento di tutte le Regioni a definirne le funzioni, avuto riguardo al principio dell’inderogabilità dell’autonomia locale, in virtù del quale, non è più prevista l’obbligatorietà dell’associazionismo, bensì la “premialità” per i Comuni che si uniscono per il perseguimento di specifiche finalità, connesse al connesso principio dell’adeguatezza del Comune ai compiti statutari e normativi da perseguire: l’adeguatezza richiede il ricorso all’associazionismo per l’attuazione degli interventi dei servizi.

Alla luce degli orientamenti più recenti, iniziati nel 2018 con il Piano Sociale Nazionale (Decreto Interministeriale del 26 novembre 2018), con l’istituzione del Reddito di Cittadinanza (legge 2019), con il DECRETO 28 dicembre 2020, Riparto delle risorse del Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale – annualità 2020, ed infine con il DPCM 21 dicembre 2020, Riparto del Fondo per l’assistenza alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare, per l’annualità 2020, è stata definitivamente confermata la scelta dell’ambito territoriale quale vincolo di riferimento per l’erogazione dei Fondi statali.

In base ad una analisi condotta in proposito, e riferita alle leggi regionali intorno al sistema dei servizi ed interventi sociali, come prefigurati dalla legge 328/2000, è stata elaborata la tabella seguente, con l’indicazione, per ciascuna Regione di:

  • denominazione e numero degli ambiti;
  • rapporto medio ambito/popolazione;
  • strumenti istituzionali;
  • governance;
  • direzione.
  1. La denominazione degli ambiti è variamente indicata: ambiti territoriali (Abruzzo, Calabria, Campania, Friuli V.G., Lombardia, Puglia, Sardegna, Valle d’Aosta); ambito territoriale sociale (Marche, Molise, Veneto); ambito socio-sanitario territoriale (Basilicata); ambiti associativi (Emilia Romagna); distretti socio-sanitari (Lazio, Sicilia); distretto sociale (Liguria); consorzi (Piemonte); zona distretto (Toscana); zona sociale (Umbria); comunità comprensoriale (Trento); comunità di valle (Bolzano). Si evince, pertanto, una non univoca concezione degli ambiti, in alcuni casi strettamente connessi con il comparto sanitario (il che può determinare non chiara individuazione del vertice amministrativo, anche in rapporto al distretto sanitario).
  1. Per ciò che concerne il rapporto ambiti territoriali-popolazione, questo varia, in relazione all’entità dei comuni associati, con notevoli differenze fra le Regioni, e comunque molto più elevato rispetto al distretto previsto fino al 1992. A tale riguardo si ritiene opportuna, per le aree più ampie, e comprendenti molti comuni, una ulteriore articolazione in ambiti sub-distrettuali.
  1. Gli strumenti istituzionali sono riferiti alle modalità di associazione fra i Comuni, previste dall’art. 33 del d.lgs. 267/2000 (TUEL): convenzione, accordo di programma; unione fra i comuni; consorzi.
  1. Per ciò che concerne le modalità di governance, queste sono individuate nel comitato dei Sindaci, nella conferenza socio-sanitaria dei Sindaci, nel coordinamento istituzionale, richiamando quanto già previsto nell’ambito delle ASL e dei distretti sanitari, ma con maggiori poteri decisionali e non semplicemente consultivi.
  1. Per ciò che concerne la direzione dell’ambito distrettuale, mentre per la sanità la complessa problematica della direzione del distretto sanitario è stata, come sopra illustrato, definita nella individuazione del direttore del distretto stesso, che dipende dal Direttore generale, con una accurata definizione di compiti e funzioni, per ciò che concerne il sociale, la direzione dell’ Ambito territoriale si articola in due livelli:
  1. Politico, espresso dal Comitato dei Sindaci, che tracciano ed approvano la “strategia” del complesso dell’ offerta dei servizi ed interventi sociali, che si concretizza nel Piano di Zona, predisposta dall’Ufficio di Piano, inteso quale supporto tecnico per il governo politico dell’Ambito territoriale.
  2. Amministrativo, quale risultante delle risorse umane, finanziarie, strumentali, che si riferiscono alla “tattica” messa in campo dai Comuni associati per corrispondere alle esigenze di buon governo, efficacia ed efficienza degli interventi e dei servizi sociali nell’osservanza della legge 328/2000 e delle specifiche leggi regionali.

In tale contesto la mancata attuazione dell’art. 12 della legge 328/2000, in cui si è prevista la definizione delle figure professionali sociali e quindi i vari livelli di funzioni e di responsabilità, ha fatto sentire il suo peso, proprio nella individuazione delle figure professionali preposte alla Direzione dell’Ambito distrettuale.

Si è analizzata in proposito la normativa regionale, che evidenziale diverse soluzioni.

La Regione Liguria ha chiaramente indicato il “Direttore del Distretto Sociale”; la Regione Piemonte il “Direttore dei Servizi Sociali” in possesso del diploma di laurea o dell’iscrizione alla sezione A dell’albo professionale dell’ordine degli assistenti sociali; la Regione Veneto il “Direttore Socio-sanitario” (erede delle” antiche” ULSSS).

Alcune Regioni indicano la figura del “coordinatore” (Lazio, Marche) oppure lo stesso variamente qualificato (tecnico, Basilicata, Calabria); d’ambito (Campania, Molise); sociale di zona (Toscana).

La Regione Emilia Romagna, che ha istituito il Servizio Sociale Territoriale” in ambito distrettuale, ne ha individuato il “responsabile”, così come il Friuli V.G.

La suddetta figura (responsabile) è altresì prevista da Sardegna, Sicilia, Umbria.

Si determina, quindi, un quadro variegato e difforme fra le Regioni, che fanno ritenere opportuna una azione che potrebbe portare, (come già verificatosi nel 2009 e ripresa nel 2014 per la definizione del Nomenclatore dei Servizi ed Interventi sociali), in sede di Conferenza delle Regioni, a definire, insieme all’ANCI, all’ Università ed all’ Ordine degli Assistenti Sociali, Organizzazioni Sindacali, CNEL, ad una declaratoria chiara delle figure dirigenziali sociali e relativa formazione preposte alla direzione dell’ Ambito territoriale.

Tab. 3

Quadro sinottico sugli Ambiti territoriali

REGIONIDenominazioneNumero AmbitiRapporto medio Ambito/popolazioneStrumenti istituzionaliGovernanceDIREZIONE
ABRUZZOAmbito territoriale2454.833Gestione associataAzienda socialeNON SPECIFICATO
BASILICATA
Ambito socio- sanitario territoriale963.110Convenzione associata comuni Con accordo di programmaConferenza istituzionale Sindaci Comuni e DG ASL a titolo consultivoCoordinatore tecnico
CALABRIAAmbito territoriale3359.330Comuni associali ex art. 33 DLS 267/2000Conferenza dei SindaciCoordinatore tecnico
CAMPANIAAmbito territoriale41142.143Comuni associatiCoordinamento istituzionale d’ambito dei sindaciCoordinatore d’ambito
EMILIA ROMAGNAAmbito associativo37120.351Comuni associali ex DLS 267/2000 ed ex L.R. 26 aprile 2001, n. 11Accordo di programmaResponsabile del servizio sociale territoriale
FRIULI V.G.ambito territoriale1867.556Convenzione fra i ComuniAssemblea dei Sindaci del Servizio sociale dei ComuniResponsabile del servizio sociale
LAZIO
Distretto socio-sanitario37159.405Comuni associali ex DLS 267/2000Comitato dei sindaciCoordinatore
LIGURIA
Distretto socio-sanitario1982.000Associazione intercomunaleConferenza dei Sindaci di AmbitoDirettore del distretto sociale
LOMBARDIA
Ambito territoriale91110.285Assemblea dei sindaciConsiglio distrettuale dei sindaci
MARCHE
Ambito territoriale sociale2463.833Comuni associali ex DLS 267/2000Comitato dei sindaciCoordinatore ATS
MOLISE
Ambito territoriale sociale744.285Comuni associatiComitato dei sindaciCoordinatore d’ambito
PIEMONTE
Consorzi5284.153Comuni associatiConsorzioDirettore dei servizi sociali
PUGLAAmbito territoriale4590.000Comuni associali ex DLS 267/2000Accordo di programmaResponsabile Ufficio di piano
SARDEGNAAmbito territoriale2565.960Associazione fra i comuniConferenza di programmazioneResponsabile Ufficio di Piano
SICILIA
Distretto socio-sanitario5591.454Convenzione fra i comuniComitato dei sindaciResponsabile
TOSCANA
Zona-distretto26143.769Comuni associatiConferenza zonale dei sindaciCoordinatore social di zona
UMBRIA
Zone sociali1273.750Comuni associatiConferenza di zonaResponsabile di zona
VALLE D’AOSTA
Ambito territoriale525.400Comuni associati

VENETO
Distretto21233.571Comuni associatiConferenza dei sindaciDirettore socio-sanitario
TNComunità di valle1633.638

NON SPECIFICATO
BZ
Comunità comprensoriali865.111

NON SPECIFICATO
TOTALE
60599.173


I SERVIZI E GLI INTERVENTI NELL’ AMBITO TERRITORIALE

In relazione ad una ormai consolidata cultura dei servizi sociali, espressa nel corso degli anni e che ha costituito anche la base per la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni indicate dall’art. 22 della legge 328/2000, le Regioni hanno confermato ed individuato nell’ambito territoriale la gamma dei servizi ed interventi rivolti alla persona ed alla comunità, in connessione con quanto indicato nel d. lgs. n. 112/98, che in effetti, per certi aspetti ha anticipato la stessa legge 328.

L’ ambito territoriale viene individuato quale sede per gli interventi che costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione zonale:

– misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento, con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora;

– misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della vita quotidiana;

– interventi di sostegno per i minori in situazioni di disagio tramite il sostegno al nucleo familiare di origine e l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare e per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza;

– misure per il sostegno delle responsabilità familiari, ai sensi dell’articolo 16, per favorire l’armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare;

– misure di sostegno alle donne in difficoltà

– interventi per la piena integrazione delle persone disabili

– interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, per l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l’accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione della elevata fragilità personale o di limitazione dell’autonomia, non siano assistibili a domicilio;

– prestazioni integrate di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da droghe, alcol e farmaci, favorendo interventi di natura preventiva, di recupero e reinserimento sociale;

– informazione e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e per promuovere iniziative di auto-aiuto.

Inoltre è specificato con estrema chiarezza che le leggi regionali, secondo i modelli organizzativi adottati, prevedono per ogni ambito territoriale, tenendo conto anche delle diverse esigenze delle aree urbane e rurali, comunque l’erogazione delle seguenti prestazioni:

a) servizio sociale professionale e segretariato sociale per informazione e consulenza al singolo e ai nuclei familiari;

b) servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari;

c) assistenza domiciliare;

d) strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali;

e) centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario.

Pertanto il suddetto “quadro” di riferimento ha costituito la base fondamentale per la costruzione del welfare locale, e va connesso anche a quanto indicato negli Statuti comunali (a proposito del ruolo del Comune a garantire l’esercizio dei diritti sociali e il diritto dei cittadini ad associarsi per lo svolgimento di servizi di interesse generale, nonché il principio dell’associazionismo intercomunale per specifiche problematiche.

LA PROGRAMMAZIONE NELL’AMBITO TERRITORIALE

Definito nelle linee generali il quadro degli interventi e delle prestazioni, analogamente a quanto già indicato nell’ambito della sanità – con il d. lgs. n. 229/99 – dove è disposto che il distretto sanitario è tenuto a redigere il Programma delle Attività Territoriali (PAT), al livello dell’ambito territoriale – legge 328/2000 – deve essere elaborato e redatto, e quindi approvato dal Comitato o dalla Conferenza dei Sindaci attraverso un Accordo di Programma secondo quanto indicato dal TUEL n. 267/2000, il Piano di Zona che individua:

a) gli obiettivi strategici e le priorità di intervento nonché gli strumenti e i mezzi per la relativa realizzazione;

b) le modalità organizzative dei servizi, le risorse finanziarie, strutturali e professionali, i requisiti di qualità in relazione alle disposizioni regionali

c) le forme di rilevazione dei dati nell’ambito del sistema informativo;

d) le modalità per garantire l’integrazione tra servizi e prestazioni;

e) le modalità per realizzare il coordinamento con gli organi periferici delle amministrazioni statali, con particolare riferimento all’amministrazione penitenziaria e della giustizia;

f) le modalità per la collaborazione dei servizi territoriali con i soggetti operanti nell’ambito della solidarietà sociale a livello locale e con le altre risorse della comunità;

g) le forme di concertazione con l’azienda unità sanitaria locale e con i soggetti del Terzo settore.

In base a quanto indicato dalla suddetta legge, pertanto, il Piano di zona rappresenta lo strumento fondamentale attraverso il quale i Comuni, associati tra di loro e d’intesa con la ASL, disegnano il sistema integrato di interventi e servizi sociali.

LO STRUMENTO OPERATIVO DELL’AMBITO TERRITORIALE: L’UFFICIO DI PIANO

Mentre per la sanità il distretto sanitario dipende direttamente dalla ASL, e ne rappresenta l’articolazione territoriale, l’ambito territoriale è l’espressione organizzata dei Comuni associati, e pertanto dipendente dai Comuni stessi, alla luce di quanto indicato negli Accordi di programma, o nelle Convenzioni sottoscritte ai sensi del d.lgs. 267/2000 (TUEL).

In tale contesto viene individuato l’ Ufficio di Piano, che, in base all’analisi condotta sulle specifiche leggi regionali, svolge le seguenti funzioni

a)supporto tecnico per l`organo di governo politico, espresso dall’Assemblea dei Sindaci associati nell’ambito territoriale;

b) attuazione del sistema informativo e dell’osservatorio sociale per la raccolta, elaborazione ed analisi dei dati sociali;

b) predisposizione conseguente ed elaborazione degli atti relativi alla specifica programmazione locale Piano di Zona, articolata per aree di intervento;

c) promozione e sostegno della partecipazione in ambito zonale dei soggetti interessati e del Terzo settore;

d) predisposizione di strumenti valutativi e di monitoraggio in ogni fase operativa della programmazione zonale;

e) predisposizione della relazione consuntiva e rendicontazione della spesa sociale.

Nelle leggi regionali specifiche l’Ufficio di Piano viene chiaramente individuato da alcune Regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Lazio, Lombardia, Marche, Umbria, Abruzzo, Campania, Lombardia).

Tale iniziale impostazione dell’Ufficio di Piano è stata via via maggiormente implementata ed arricchita di ulteriori specifiche funzioni, che comunque variano da Regione a Regione.

La sede dell’Ufficio di Piano è individuata nel Comune capofila dell’ ambito territoriale.

Dall’esame dei vari atti regionali intorno agli Uffici di Piano, risulta peraltro un quadro diversificato: in alcune Regioni è stato definito in apposito regolamento il funzionamento dell’Ufficio di Piano, con una accurata specificazione delle finalità, dei compiti, delle competenze, del rapporto con il livello istituzionale, della gestione del fondo sociale, e relativa rendicontazione.

In altre Regioni è stato rinviata all’Accordo di programma per l’associazione dei Comuni la definizione, le finalità e la strutturazione dell’Ufficio di Piano.

IL PERSONALE DELL’AMBITO TERRITORIALE CON RIFERIMENTO AL SERVIZIO SOCIALE PROFESSIONALE

Tenuto conto delle competenze degli Enti locali, singoli o associati, quanto a progettazione, gestione e controllo dei servizi e degli interventi sociali presenti ed operanti sul territorio, occorre rilevare che anche in questo caso la mancanza di quanto indicato nel richiamato art. 12 della legge 328/2000, in ordine alla definizione delle figure professionali sociali, ha portato le Regioni e gli Enti locali ad una situazione diversa e legata anche alle vicende della finanza locale.

In relazione agli anni che hanno coinciso con l’avvio della legge 328/2000, le esigenze legate al patto di stabilità ed alle conseguenti riduzioni di fondi e risorse, hanno indotto alla esternalizzazione dei servizi, e quindi al ricorso a personale esterno assunto con contratti di natura privata, e con la assoluta mancanza di continuità operativa.

Solo la Regione Piemonte ha individuato le figure professionali necessarie: assistenti sociali; educatori professionali; operatori socio-sanitari e gli assistenti domiciliari e dei servizi tutelari; animatori professionali socio- educativi.

La Regione Puglia nel proprio regolamento regionale di attuazione della L.R. 19/2006 ha individuato molteplici figure sociali: assistente sociale; educatore professionale; operatore socio-sanitario; animatore sociale; assistente domiciliare, in relazione ad una accurata definizione dei servizi residenziali e semiresidenziali.

Si ritiene, anche in relazione a quanto già indicato nelle prime leggi regionali sull’assistenza negli anni ’80, addivenire alla formulazione di piante organiche intercomunali riferite all’Ambito territoriale da servire, anche in linea con il d. lgs 147/2017 e con il recentissimo DECRETO 28 dicembre 2020, Riparto delle risorse del Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale – annualità 2020, dove viene con assoluta chiarezza nell’ “Atto di programmazione regionale per gli interventi e i servizi sociali di contrasto alla povertà 2020” il ruolo e la funzione del Servizio Sociale Professionale:

– Costituisce il perno attorno a cui ruota tutto l’impianto di attivazione e inclusione sociale della misura, dal momento del pre-assessment (l’analisi preliminare in cui si decide il successivo percorso nei servizi) alla progettazione.

– Obiettivo: Il Piano stabilisce come prioritario assicurare un numero congruo di assistenti sociali, quantificabile in almeno un assistente ogni 5.000 abitanti. Gli ambiti che presentano un numero di operatori inferiore al target dovranno vincolare parte delle risorse della quota servizi del Fondo Povertà nazionale loro attribuite all’acquisizione di tali operatori al fine di rafforzare il Servizio Sociale Professionale. Il vincolo è tanto maggiore quanto più lontana è la situazione dell’ambito da quella desiderata, secondo lo schema seguente:

– Meno di 1 assistente sociale ogni 20.000 abitanti: almeno il 60% delle risorse

– Meno di 1 assistente sociale ogni 10.000 abitanti: almeno il 40% delle risorse

– Meno di 1 assistente sociale ogni 5.000 abitanti: almeno il 20% delle risorse

– Almeno 1 assistente sociale ogni 5.000 abitanti: requisito soddisfatto

L’obiettivo da raggiungere è da intendersi nei termini degli operatori presenti per tutte le funzioni del Servizio Sociale Professionale (cioè, non solo per l’area povertà), anche se gli assistenti sociali assunti a valere sulle risorse del Fondo povertà devono essere utilizzati in tale area d’interventi.

Tale documento costituisce il riferimento di notevole rilievo ai fini della necessaria strutturazione del Servizio Sociale Professionale proprio al livello di Ambito territoriale, e che richiede una sua propria ulteriore articolazione funzionale riferita, come già ho affermato altrove, a proposito dell’Ufficio di Piano, sulle figure professionali del supervisione e guida sul lavoro, funzioni peraltro proprie del Servizio Sociale Professionale.

Tale funzione va riferita a tutto il complesso della rete dei servizi sociali presenti sul territorio, sia aperti che residenziali o semiresidenziali sociali e socio-sanitari e che prevedono l’impiego degli

Assistenti Sociali.

L’obiettivo finale, nel sistema di rete dei servizi sociali è quello di non far sentire l’operatore sociale “solo”, ma inserito in un sistema logistico di tutela e di sostegno professionale, ove occorra, in grado di garantire, anche alla luce del codice deontologico, la stessa persona, la famiglia, la comunità, che fruisce del Servizio Sociale Professionale.

CONCLUSIONI

L’analisi condotta intorno alle politiche territoriali dei servizi sanitari e dei servizi sociali portata avanti nel corso degli anni mette in evidenza la constatazione finale della conferma della prevalente separazione fra la sanità ed il sociale.

Da una parte il distretto sanitario, con la sua connotazione ed organizzazione inquadrata nella ASL e con una funzione che è riferibile sia all’offerta sanitaria di prima istanza, sia ai servizi socio-sanitari individuati nei LEA, dall’altra l’ambito territoriale proprio della competenza e della funzione degli Enti locali singoli o associati, per lo svolgimento delle politiche territoriali relative agli interventi ed ai servizi sociali.

Esiste poi l’area intermedia dell’integrazione socio-sanitaria, in cui convergono i servizi e gli interventi sanitari a rilievo sociale, della ASL, e i servizi e gli interventi sociali a rilievo sanitario, dei Comuni.

In tale contesto l’aspetto più rilevante da tenere presente è riferito alla attenzione ed all’affermarsi dei concetto di “budget di salute”, che in effetti si propone di superare le “separatezze” esistenti, recuperando il concetto della unicità della “persona” e quindi, anche in relazione a fenomeni demografici di estrema rilevanza quali l’invecchiamento della popolazione, nonché l’aumento delle cronicità e delle fragilità psico-sociali, la predisposizione ed attuazione di piani personalizzati in presenza di bisogni complessi della persona che richiedono l’intervento di diversi servizi ed operatori sociali, sanitari, e costituiti dall’insieme di risorse economiche, professionali e umane necessarie a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali.

Pertanto, con la definizione del budget di salute si recupera lo spirito iniziale che portò le Regioni a prefigurare nel distretto socio-sanitario il modello concettuale ed operativo del complesso degli interventi e dei servizi rivolti alla perdona, e in tale dimensione da una parte si supera la visione “ancillare” del sociale rispetto alla sanità, ma si determina un rapporto paritario che si ripercuote sulla stessa organizzazione del personale necessario, con specifiche funzioni e ruoli.

La conclusione può essere rappresentata dalla definizione di specifici “Accordi di programma” fra Distretto sanitario ed ambito territoriale, di cui esistono vari modelli portati avanti in ambito regionale (Emilia Romagna, in particolare).

In tale prospettiva il Servizio Sociale Professionale, presente sia nell’area sanitaria che nell’area sociale, rappresenta l’anello di congiunzione per la reale integrazione socio-sanitaria al livello locale, e pertanto richiede una sua più approfondita ristrutturazione ed organizzazione.

A tale riguardo si ritiene necessaria una ridefinizione della preparazione professionale del percorso formativo dell’assistente sociale, che deve essere articolato in un triennio più un biennio di specializzazione.

Infatti, a differenza delle altre professioni, e in relazione all’intensità ed alla complessità della professione, che richiede vari gradi di apprendimento e di funzione, il punto di forza fino ad oggi della professione di assistente sociale è stato costituito proprio dalla opportunità di una preparazione universitaria triennale che costituisce quindi un livello assolutamente proprio della professione, e va inquadrato nelle prospettive che sono offerte dal primo grado del livello essenziale assistenziale, il servizio di segretariato sociale (con le sue articolate e complesse conseguenze operative) inteso quale modello primario di intervento sociale.

Il biennio di specializzazione deve essere visto nella prospettiva di “costruire” l’ulteriore livello di funzione del Servizio Sociale Professionale, tale da essere inquadrato nel contesto più impegnativo della managerialità e della ingegneria sociale: infatti è legato alla individuazione di un più elevato livello di “lavoro” sociale proiettato verso la costruzione di un sistema integrato socio-sanitario che passa attraverso la programmazione, la direzione strategica, la verifica dell’offerta dei servizi, e quindi verso la dimensione aziendalistica (nelle sue migliori espressioni) di “resa” dei servizi e degli interventi.

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