Nigeriani
di Pietro Mecarozzi
Il Fatto Quotidiano
Tratta di esseri umani, riciclaggio, droga, sfruttamento della prostituzione, reati violenti. La mafia nigeriana è un’organizzazione criminale feroce, per certi aspetti triviale. Durante gli ultimi vent’anni, dopo essere partita in sordina e all’ombra della narrazione criminale italiana, si è ritagliata il suo spazio nel panorama mondiale, trovando anche una sorta di equilibrio con le organizzazioni criminali autoctone. Il gruppo africano parte dal delta del Niger e trova terreno fertile ovunque decida di estendere le proprie attività.
Nasce dai “cults”, le confraternite delle università nigeriane fondate intorno alla metà del secolo scorso sul modello di quelle statunitensi, con lo scopo di combattere l’apartheid e ogni forma di razzismo. Successivamente il fenomeno è degenerato in potenti associazioni criminali. Fino ad arrivare ai giorni nostri, dove la piovra nera ha aggiogato l’interna nazione, da Caltanissetta a Treviso, e si è triforcata in tre gruppi, Axe, Eiye e Viking (e i più contenuti Maphite), che fanno capo a un’unica struttura in Nigeria. “L’organigramma e le gerarchie sono quelle ’ndranghetiste e anche la suddivisione del territorio, come i processi decisionali, sono tipiche delle cosche italiane”, spiega al Fatto un agente della Dia (Direzione investigativa antimafia), che preferisce rimanere anonimo. “In Nigeria fa affari con la politica, all’estero stringe accordi con i narcos per importare cocaina ed eroina e con gli albanesi per la marjuana. Mentre in Italia – continua l’agente – si raccorda con una decina di mandamenti, dalla mafia barese alla Sacra Corona Unita. Senza contare le relazioni europee con la camorra marsigliese e la mafia russa”.
Dalle grandi città universitarie nigeriane, si sono poi spostati nel mondo occidentale, distinguendosi nella gestione partecipata del narcotraffico transcontinentale. Il denaro guadagnato “viene inviato in Nigeria tramite corrieri o sistemi hawalao reinvestito nel traffico di droga”, racconta l’agente della Dia, “e non è un caso se nel primo trimestre del 2020 sono tra le etnie in Italia che hanno più rimesse verso il Paese d’origine, circa 55 milioni”. Tra i mercati più redditizi c’è quello di Roma, diventato un centro di smistamento di tonnellate di marijuana provenienti da Valona, in Albania. Centinaia di chili che ogni mese partivano dalla stazione Tiburtina e che hanno portato a inizio marzo all’arresto di cinquantacinque persone in molte città italiane, in Albania e in Germania, in quello che gli inquirenti hanno definito un sodalizio tra mafia nigeriana e albanese.
“Tra mafie italiane, straniere e nigeriane senza dubbio c’è un patto di non belligeranza. La grande adattabilità della mafia nigeriana è il suo punto di forza e le modalità operative diverse per ogni gruppo fanno sì che agli inquirenti resti difficile perseguire la loro attività criminale ”, puntualizza Vincenzo Musacchio, giurista e ricercatore della Scuola di studi strategici sulla criminalità del Royal United Institute di Londra. Come riesce ad essere tanto potente quanto invisibile? L’omertà assoluta è la caratteristica dominante della mafia nigeriana: “Tra i membri del clan vige la legge del silenzio quando sono arrestati, e questo la rende impenetrabile”, spiega Musacchio. Le organizzazioni nigeriane si distinguono anche per l’uso della forza e il ricorso alla violenza, anche al suo interno, e per entrare a farne parte “bisogna sottostare a rigidi codici e superare violenti riti di iniziazione, come il rito “magico” juju, o subire pestaggi, frustate o bere sangue, e pagare una tassa”, svela invece l’agente.
A questo si aggiunge il processo di reclutamento che avviene spesso davanti gli Sprar e ai centri di accoglienza, diventati per l’organizzazione un ufficio di collocamento. Come è successo per Paul Frankphat: entrato in Italia e spedito al Centro di accoglienza di Mineo, venne picchiato proprio dai Vikings perché si rifiutò di diventare un affiliato. Dopo il ricovero in ospedale, Paul venne spedito a Ferrara a spacciare. Ma qui decise di ribellarsi e denunciare le vessazioni. Proprio Ferrara nel frattempo è diventata un importante snodo operativo dei Vikings nigeriani, e lo scorso ottobre assieme a Torino è stata teatro di un blitz con 70 arrestati (tra cui il “boss” Emmanuel “Boogye” Okenwa).
Un dato significativo è anche quello che indica, nel biennio 2018-2019, i cittadini nigeriani, tra gli stranieri, quelli con il più alto numero di denunce o arresti per reati di associazione mafiosa. E anche nei primi 9 mesi del 2020, nonostante la battuta d’arresto dovuta alla pandemia, tra le etnie maggiormente denunciate-arrestate c’è quella nigeriana. Sono stati, per esempio, 47 i fermi per associazione mafiosa eseguiti a metà 2020 dalla Polizia di Stato di Teramo contro la Eiye. A Palermo, dove una piccola area del mercato di Ballarò è diventata zona esclusiva della mafia nigeriana, a fine 2020 con l’operazione Sister white sono state arrestate 13 persone, e pochi mesi dopo ne sono state catturate altre otto, tra cui il presunto capo dei Viking, Churkwuma Parkinson.
Insomma, le vecchie pratiche primitive stanno per cedere il passo alle realizzazione di sistemi finanziari paralleli, ma i numerosi arresti sono sinonimo “di una mancata infiltrazione tra le maglie politiche del nostro Paese”, confessa Federico Varese, criminologo dell’Università di Oxford. “Detto ciò, è un grande errore sottovalutare la sua ferocia e la sua preoccupante evoluzione”.
Pietro Mecarozzi