Giuseppe Cesaro, Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce, La Nave di Teseo

Che la loro madre fosse malata, Giuseppe e i fratelli avevano dovuto scoprirlo da soli. Nessuno diceva nulla della stanchezza della donna, del peso delle terapie, delle giornate passate in ospedale.

Solo un giovane specializzando in oncologia spiegherà a Giuseppe l’abisso che si nascondeva dietro a quei silenzi. Un semplice scambio: un brano suonato con la chitarra per la notizia di un devastante tumore al seno.

Non era quella, però, la prima tragedia che aveva colpito la famiglia. A ripercorrere il passato e i suoi momenti più bui è Giuseppe, che racconta lo scomparire della luce negli occhi della madre, a partire dalla morte di sua figlia, fino ad arrivare al momento del funerale; e la vita del padre, professore e scrittore, al quale lucidità e rigore morale erano quasi costati la vita, in alcuni momenti drammatici sempre taciuti, e condivisi con il figlio solo pochi giorni prima di morire.

Dotato di una prosa intensa e raffinata, “Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce” è un romanzo commovente, fatto di dialoghi toccanti e profondi tra presenze e assenze, vita e morte, attimi e ricordi in grado di parlare a tutti noi.

recensione di Federica Bassignana in il Foglio, 16 aprile 2025:

Quando si perde una persona cara, che cosa rimane? I ricordi: l’ultima traccia tangibile della sua esistenza nel mondo. Perché quando tutto svanisce, a riempire quel vuoto rimane solo l’eco ingombrante dell’assenza. Ed è inevitabile che, lentamente, si smarrirà ogni traccia sonora della voce e la memoria dei lineamenti del viso. E nemmeno i ricordi di vita condivisa sono al sicuro da quella beffarda ironia del tempo, che anche in questo gioca la sua parte. Lo descrive con delicatezza e una prosa intima, poetica ed estremamente toccante Giuseppe Cesaro  nel suo ultimo libro “Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce”, edito da La Nave di Teseo

L’autore racconta la sua vita familiare, a partire dalla perdita di sua madre quando ha appena diciassette anni. Ed è proprio a lei che si rivolge, in un dialogo profondo che va oltre il tempo e che satura ogni distanza. Che la vita dà, e la vita toglie – e che spesso non c’è alcuna spiegazione che possa dare pace – Cesaro l’ha imparato fin da bambino, osservando sua madre e la luce che, inesorabilmente, ha iniziato a svanire dai suoi occhi a partire dalla morte di sua figlia fino ad arrivare alla malattia, quel “quel brutto male” che l’aveva trascinata nel suo inferno. “Un’onda di tsunami sarebbe stata meno impietosa”, scrive l’autore, entrando nel cuore della sua storia familiare, che continua ad accompagnarlo nel presente perché “Sbagliamo a chiamarlo passato: certe cose non passano mai”. Scrivendo a sua madre, Cesaro racconta la sua vita, fatta di assenze, dolori, perdite, amore, scelte, speranze: “A diciassette anni, avevo un’unica certezza: non avrei mai avuto una vita normale, qualunque cosa ciò significasse. Non sbagliavo. Sono sopravvissuto? Evidentemente. Ed è esattamente questo che mi sento, infatti: un sopravvissuto. Non fosse così, non sarei qui a buttare sulla carta pensieri che mi porto dentro da allora. Spero che si decidano a sgombrare le stanze della coscienza. Anche se so che questa speranza si rivelerà, presto, un’illusione”.  

Un memoir sulla morte diventa un inno alla vita, rivelandosi una testimonianza intensa che ricorda come l’esistenza sia un abisso, e ognuno lo affronta come può. E quanto risuonano vere le parole di Italo Calvino in questo libro: finché c’è una speranza, in questo “inferno dei viventi”, c’è una possibilità di salvezza: “Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno. E farlo durare, e dargli spazio”.

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