La vita è un processo caratterizzato da una crescita invasiva.
Una modalità di organizzazione della materia che chiamiamo « vita » prese inizio circa tre miliardi di anni fa, con l’organizzazione di poco materiale che fluttuava a più di dieci metri sotto il livello del mare. Lentamente quel poco materiale che si era organizzato in maniera « vitale » reclutò i materiali che lo circondavano e li organizzò secondo il proprio modello. Via via che continuava questa crescita quantitativa le forme viventi si differenziarono sempre più e accanto ai modelli primitivi, simili ai nostri batteri, comparvero forme più grosse e complesse, organismi ancora formati di una sola cellula ma dotati di cromosomi. Alcuni di essi si raggrupparono formando organismi multicellulari che via via si differenziarono lungo tre linee separate, la linea delle piante, quella dei funghi e quella degli animali che colonizzarono successivamente le terre emerse. I primi animali che tentarono la grande avventura abbandonando l’ambiente idrico furono gli scorpioni e alcuni molluschi, poi i pesci dotati di polmoni che dovevano dare origine agli anfibi e ai rettili. E poi dai rettili originarono due linee, quella degli uccelli e quella dei mammiferi, alla quale anche noi apparteniamo. A poco a poco, attraverso questa lunga storia, quantità sempre più grandi di carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, fosforo, ferro, magnesio, sodio e potassio si organizzarono in forma di organismi viventi occupando, dopo i mari e le acque dolci, estensioni sempre più vaste delle terre emerse.
Tutto questo è potuto avvenire grazie a un grande spreco di vite.
Moltissime delle alghe che furono lanciate sulle rive morirono, prima che qualcuna di esse potesse abbarbicarsi e dare origine a un muschio. Moltissimi dei muschi che il vento portò un po’ più lontano dalla riva morirono, prima che qualcuno di essi potesse dare origine a una felce. Moltissimi dei pesci polmonati, trovatisi in pozzanghere che la siccità isolò rispetto al fiume, morirono prima che qualcuno di essi desse origine a un animale stabilmente capace di respirare aria, cioè a un antenato dei moderni anfibi (e nostro antenato).
La progressiva estensione del dominio della vita è stata possibile soltanto grazie allo spreco di vite.
Se credessimo a un Progetto, potremmo dire che il progetto globale (l’estensione del dominio della vita) ha potuto realizzarsi soltanto grazie all’interruzione precoce di molti progetti parziali (le vite degli individui che, nel passaggio da un ambiente a un altro, sono morti). Se non crediamo all’esistenza di un Progetto, ci esprimiamo diversamente: e diciamo che si sono evolute, dando origine a nuove specie viventi, soltanto quelle specie che avevano eccessi demografici da sprecare, quelle specie che avevano una tale esuberanza riproduttiva da contare in ogni momento su un numero di nati tale da colmare tutta la nicchia ecologica d’origine e per di pili da traboccarne al di fuori occupando nuovi ambienti e incontrandovi — fra pochissime probabilità di vita — un’elevatissima probabilità di morte. Sopravvivere al di là dei limiti dell’ambiente nel quale si è avuta origine è stato sempre spaventosamente improbabile: le specie viventi vi sono riuscite solo perché avevano un’immensa capacità riproduttiva; il cui prezzo era sempre, in ogni momento, un’immensa mortalità.
Col procedere dell’evoluzione, col complicarsi degli apparati, delle funzioni organiche, delle esigenze dell’organismo, la capacità riproduttiva è andata diminuendo, pur rimanendo superiore alle disponibilità dell’ambiente nel quale vive ogni specie. Gli uccelli hanno minore capacità riproduttiva degli insetti, i mammiferi ne hanno meno dei pesci. Perciò anche la morte ha un significato diverso per le diverse specie: la morte di un individuo in crescita, di un uovo fecondato, è priva d’importanza per i pesci; è gravissima per gli scimpanzè e per i gorilla che hanno un potenziale riproduttivo molto basso.
La diminuzione della potenzialità riproduttiva che si è verificata lungo l’evoluzione biologica non è avvenuta per diminuzione della potenzialità riproduttiva sia dei maschi che delle femmine, ma esclusivamente per diminuzione della potenzialità riproduttiva delle femmine. Sotto il profilo della potenzialità riproduttiva l’evoluzione biologica è un processo che coinvolge soltanto le femmine, perché l’organismo femminile è molto più impegnato dell’organismo maschile nel processo di riproduzione [ …]
Le centinaia di migliaia di uova presenti nell’ovaio umano al momento della nascita sono moltissime rispetto all’effettiva possibilità di procreazione da parte della donna, che non può portare a termine più di una ventina di gravidanze, ma sono pochissime rispetto ai miliardi di spermatozoi che si formano, lungo il ciclo vitale individuale, nell’organismo dell’uomo. È come se si manifestasse, accanto al « principio di spreco », un contrastante « principio di risparmio » (l’uovo « costa » più dello spermatozoo, quindi va risparmiato). Naturalmente potremmo parlare di « principi » solo se credessimo a un Progetto; ma se non crediamo a un Progetto (o se ci asteniamo dal supporlo, il che forse esprime più esattamente l’atteggiamento scientifico), allora possiamo dire che sono sopravvissute, evolvendosi, le specie capaci di spreco delle funzioni semplici e capaci di risparmio nelle funzioni complesse [ …]
Nella funzione riproduttiva il principio di risparmio non si manifesta soltanto con la diminuzione del numero delle cellule seminali lungo l’evoluzione dalle specie più semplici alle specie più complesse, e più specificamente con la diminuzione del numero delle uova in confronto agli spermatozoi, ma anche in molti altri modi. In alcuni mammiferi (per esempio nel coniglio) il principio di risparmio fa sì che la maturazione delle uova si completi soltanto dopo il coito: perché fare il lavoro di portare a termine la maturazione delle uova, se non ci sono spermatozoi in vista? Non si fanno lavori inutili…
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Anche l’aborto spontaneo è un aspetto del principio di risparmio. Più o meno in tutte le specie di mammiferi, e anche nella specie umana, la maggior parte dei prodotti del concepimento che hanno qualche anomalia o malformazione vengono spontaneamente abortiti: molte donne hanno aborti spontanei dei quali non si accorgono perché li scambiano per «semplici ritardi mestruali »; non si tratta di avvenimenti rari: sono invece frequentissimi. Nel caso dell’aborto spontaneo non c’è stato « risparmio » né di spermatozoi né di uova: però viene risparmiato l’organismo femminile dal peso e dal rischio di una gravidanza e di un parto che non sarebbero utili ai fini della specie in quanto porterebbero alla nascita di un individuo incapace di sopravvivere. In certe specie l’aborto è una manifestazione del principio di risparmio non in quanto evita la nascita di un individuo incapace di sopravvivere, e di procreare a propria volta, ma in quanto evita la nascita di individui meno adatti alla vita di altri individui che potrebbero nascere al loro posto.
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Nessuna specie può servire da modello interpretativo per le altre, nemmeno fra specie piuttosto vicine nella scala evolutiva come sono gli uomini e i licaoni. Se mi sono soffermata su questi esempi di soluzioni trovate da specie diverse dalla nostra, l’ho fatto solo per rilevare alcune poche grandi costanti che si ritrovano in tutte le specie viventi; non perché un Progetto le abbia dotate di alcune caratteristiche simili, ma perché sono sopravvissute soltanto le specie che le possedevano.
La grande costante fondamentale è la potenzialità riproduttiva esuberante rispetto alle risorse dell’ambiente.
Un’altra grande costante è la diminuzione della potenzialità riproduttiva che sopravviene con il complicarsi delle funzioni e degli apparati, e che nelle specie sessuate si verifica nel sesso femminile. [ …]
Dunque possiamo dire che nella specie umana un’alta frequenza di aborti – anche tre in un anno – è connessa con la mancanza di un estro vero e proprio. D’altronde alla mancanza di un estro vero e proprio è connessa, secondo la maggior parte degli studiosi, tutta una serie di fatti che hanno portato all’homo sapiens e alle caratteristiche che gli conosciamo. Secondo questa concezione la continua disponibilità della donna all’accoppiamento ha creato saldi legami di coppia, il saldo legame di coppia ha reso possibile l’inibizione dell’aggressività tra maschi, e questo ha reso possibile una cooperazione più efficiente e una vita sociale più costruttiva […] e connesso allo sviluppo di quei caratteri specifici della nostra specie che ci sembrano migliori: l’atteggiamento positivo verso i compagni di specie, la disponibilità all’aiuto reciproco, l’amore per il compagno sessuale. In particolare, l’aborto provocato è un prezzo che si paga per quel prevalere della corteccia cerebrale del quale siamo tanto orgogliosi. Ma non è un prezzo pagato dalla specie nel suo insieme: è un prezzo pagato dalle donne. Alle quali, per il fatto che pagano questo prezzo, ne vengono fatti pagare degli altri.
Le inibizioni all’ovulazione o alla fecondazione, come pure le morti di embrioni, di feti, di organismi giovani ancora incapaci di procreare, costituiscono forme diverse di diminuzione della capacità riproduttiva. Non sembri strano parlare della morte di un bambino come di una « diminuzione della potenzialità riproduttiva della specie ». Non significa ignorare il valore dell’esistenza individuale; significa soltanto rilevare che, tra la morte di un organismo che già si è riprodotto e la morte di un organismo che ancora non si è riprodotto, la seconda apre, a distanza di tempo, un più grande vuoto negli effettivi della specie. La vittoria sulle malattie infantili ha dato alla crescita demografica un impulso molto maggiore che la vittoria su questa o quella malattia degli adulti [ …]
Già prevedo molte delle obiezioni che verranno fatte alle pagine che ho scritto sin qui. Qualcuno dirà che mi sono rifatta alla biologia, all’etologia, alla socio-biologia e alle scienze affini; non intendo difendermi da questa accusa perché non la ritengo denigratoria. Qualcuno specificherà maggiormente e mi accuserà di aver « messo sullo stesso piano » l’uomo e gli altri animali. Ribatterò che non li ho messi sullo stesso piano ma ho cercato di studiarli col medesimo metro, perché soltanto in questo modo si possono rilevare le differenze. Nessuno, per confrontare due lunghezze diverse, userebbe diverse unità di misura: è proprio l’impiego dell’identica misura che da conto delle differenze. È comunque un po’ strano che, fra i molti che avversano gli etologi e i socio-biologi in nome del fatto che le determinanti della specie umana sarebbero storiche anziché biologiche (se mi è lecito schematizzare così la polemica), non se ne sia levato uno solo, durante la campagna referendaria, a dire chiaramente che l’embrione, sul quale agiscono soltanto determinanti biologiche, non è da considerarsi « uomo » (altri, è chiaro, sono i motivi che inducono me a non considerarlo tale; gli avversari dell’etologia e della socio-biologia avrebbero dei motivi in più di quelli che ho io, ma non li hanno adoperati). Ma se a muovermi l’accusa di impiegare per l’uomo e per gli altri animali i medesimi strumenti concettuali sarà un cattolico, non avrò molto da ribattere: perché mi rendo conto che, nella sua concezione, la diversità fra l’uomo e gli altri animali è fondamentalmente un diverso rapporto con Dio; il cattolico, nel confrontare al rapporto con Dio le acquisizioni delle scienze biologiche, psicologiche, etologiche, avrà probabilmente i suoi problemi: ma io non ne posso discutere perché i problemi miei sono altri. Aggiungerò che a tenermi lontana dal cattolicesimo è proprio soprattutto “questo, la negazione dell’unità del mondo vivente nel suo insieme, in nome di un rapporto con Dio che lo divide: di qua l’Uomo e di là il Resto.
In : Laura Conti, Il tormento e lo scudo, Mazzotta editore, Milano 1981, pagg. 9-21