La scheda rossa. Sulla scheda rossa c’è scritto “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione”. Votando “sì” il cittadino sceglie di abrogare l’art. 23 bis del decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008 e le correzioni che questo testo ha subito nei due anni successivi.
Se vince il no (o non si raggiunge il quorum, formato dal 50% +1 degli aventi diritto). In questo caso resta in vigore l’articolo 23 bis, che prevede la privatizzazione del servizio idrico entro la fine di quest’anno. I comuni che gestiscono il servizio attraverso imprese pubbliche dovranno organizzare gare pubbliche trasparenti per affidare la gestione della rete a imprese private o ad aziende miste tra capitale pubblico e privato, dove però il socio non-statale abbia almeno il 40% delle azioni e anche il potere di prendere le decisioni “operative” sul servizio. Nel caso che la società che gestisce il servizio sia quotata in Borsa, l’ente locale deve scendere sotto il 40% entro il 2013 e sotto il 30% entro fine 2015. Il possesso dell’infrastruttura, comunque, resta sempre pubblico.
Le eccezioni. Solo in casi “eccezionali” il 23-bis consente la gestione del servizio idrico a un’azienda dell’ente locale. Ma serve il via libera dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Se vince il sì. Con la vittoria dei “sì” l’articolo 23 bis viene abrogato, e quindi saltano gli obblighi previsti e la situazione resta quella attuale: i Comuni possono scegliere liberamente se affidare la gestione dei servizi idrici a una società pubblica, privata, o mista.
Il punto. La vera novità del decreto legge che il referendum chiede di abrogare sta nell’obbligo della vendita ai privati. Perché sono ormai più di 15 anni che, con la legge Galli del ‘94, l’Italia consente la gestione dei servizi idrici da parte di imprese non pubbliche. Difatti sulle 114 società “affidatarie” del Sistema idrico integrato in Italia ci sono 7 imprese private e 31 società a capitale misto pubblico-privato. Ci sono altre 18 imprese non così facilmente collocabili in queste categorie, ma nella maggioranza dei casi (58 aziende) la gestione dell’acqua è solo pubblica.
La scheda gialla. Sulla scheda gialla c’è invece scritto “Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito. Abrogazione parziale di norma”. In questo caso il referendum propone di cancellare la frase “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito” dal comma uno dell’articolo 154 del Decreto Legislativo n. 152 del 2006.
Se vince il no (o manca il quorum). Nel paragrafo de dl. 152 si elencano i criteri sui quali si deve basare il calcolo della tariffa da applicare per il sistema idrico integrato. Si precisa che la tariffa si deve calcolare tenendo conto di diversi fattori, tra i quali i principali sono: la qualità del servizio, i costi delle opere necessarie a fornirlo, le spese per la gestione della rete e l’equa remunerazione del capitale investito, che consiste in un ritorno sull’investimento fatto dall’investitore. La legge fissa il tasso di questa remunerazione al 7%. Vincesse il no, le imprese che gestiscono la rete continueranno ad avere diritto anche a questo ritorno.
Se vince il sì. Una maggioranza di “sì” al secondo quesito spingerebbe presumibilmente a un ribasso delle tariffe del servizio idrico in virtù dell’eliminazione dalla loro valutazione della quota che può dipendere dal criterio di “remunerazione del capitale investito”, dato che questa espressione viene eliminata dalla norma.
La rete. Al centro della questione c’è la rete idrica nazionale. In Italia ci sono 337 mila chilometri di acquedotti. Un sistema che, in media, perde 47 litri d’acqua ogni 100 trasportati sprecando ogni anno, dicono le stime, acqua per 2,5 miliardi di euro. Ovviamente ci sono casi di eccellenza e casi di gestione poco efficiente. Ad esempio a Bari bisogna mettere in rete 206 litri di acqua per farne uscire 100 dai rubinetti e a Palermo 188, mentre le perdite di Milano e Venezia (11 e 9 litri persi ogni 100) sono sotto la media europea di 13 litri persi ogni 100.
Gli investimenti. Utilitatis, l’associazione delle imprese del settore, dice che bisognerà investire 64,1 miliardi nei prossimi trent’anni per mettere a posto la rete. Un progetto, secondo i calcoli del Censis, da finanziare con il 14% di fondi pubblici e con il resto grazie alle tariffe. Coviri, la commissione di vigilanza sul sistema idrico, fa una stima di poco inferiore: servono, dice, 45,3 miliardi. L’idea del dl n. 112 del 25 giugno 2008 è coinvolgere i privati per non costringere lo Stato ad accollarsi tutta la spesa.