In limine mortis
Di fronte a una malattia totalmente invalidante, di fronte a una morte incombente e rimandata di giorno in giorno solo grazie a un inefficace accanimento terapeutico, di fronte a una vita ridotta a puro fatto biologico in cui l’individuo è spogliato di ogni autonomia e volontà, l’atteggiamento popolare è molto più pragmatico e, in questo senso, più progredito – perché più aderente alla realtà – di quello dei nostri legislatori, i quali, invocando la sacralità della vita (tanto più sacra quanto sono loro a controllarla e non il soggetto che dovrebbe viverla e non può), si trasformano in interpreti ed esecutori di un presunto progetto divino. La stragrande maggioranza degli individui sceglierebbe, per sé, una morte rapida e indolore – una morte consapevole – a una prolungata agonia imposta da qualcun altro, che quell’agonia non la sperimenta nel proprio corpo e nella propria psiche, ma che estendendo quella altrui pensa forse di mondare la propria coscienza. A questo pensavo mentre, in silenzio, un paio di sere fa ascoltavo i discorsi dei parenti al di qua della barriera d’ingresso del reparto di rianimazione dell’ospedale di Gallarate dove è ricoverato anche mio padre, in condizioni gravi sì, ma – considerate le circostanze – meno gravi degli altri degenti, una delle quali era in coma vegetativo, senza alcuna speranza di recupero. Il tenore delle conversazioni era
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