“Piu Uno” è un’associazione politica italiana promossa da Ernesto Maria Ruffini

“Piu Uno” è un’associazione politica italiana promossa da Ernesto Maria Ruffini, ex direttore dell’Agenzia delle Entrate, nata formalmente il 1° marzo 2025 ma lanciata pubblicamente intorno a giugno 2025 con i comitati locali in varie province.isimbolidelladiscordia+1

Origini e Scopi

L’associazione si propone di attivare il potenziale civico, mettere in rete esperienze di impegno civile e favorire il bene comune attraverso spazi di confronto e nuove idee per il dibattito politico.

Ruffini la descrive come un richiamo all’esperienza dell’Ulivo degli anni ’90, puntando a un centrosinistra progressista che parta dai cittadini per contrastare sovranismi e populismi.piu+2

Attività Recenti

I comitati “Più Uno” mirano a diffondersi in tutte le 110 province italiane, promuovendo partecipazione democratica e politica dell’uguaglianza, con logo che recita “Più uno la politica dell’uguaglianza”.

Ruffini ha ribadito il contributo al campo progressista in interventi televisivi e eventi, come alla Fondazione Mirafiore nel dicembre 2025.avvenire+3

  1. https://www.isimbolidelladiscordia.it/2025/06/piu-uno-se-il-progetto-di-ruffini.html
  2. https://www.piu-uno.it
  3. https://piu.uno/comitati-piu-uno-un-contributo-al-campo-progressista/
  4. https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1462376.pdf
  5. https://www.avvenire.it/politica/partono-i-comitati-piu-uno-di-ruffini-ascoltiamo-le-persone_95113
  6. https://www.liberioltreleillusioni.it/articoli/articolo/quorum-o-non-quorum
  7. https://piu.uno
  8. https://www.isimbolidelladiscordia.it/2025/06/
  9. https://piu.uno/2025/12/08/
  10. https://www.feltrinellieditore.it/opera/piu-uno/

15 novembre 2025, Ernesto Maria Ruffini, Intervento di apertura della Prima Assemblea Organizzativa Nazionale dei Comitati Più Uno

in: https://piu.uno/intervento-di-apertura-prima-assemblea-piu-uno9Q

Moltissimi di noi si incontrano oggi per la prima volta. Arrivati da tutte le regioni d’Italia.  E forse la domanda più naturale che ci stiamo facendo è Perché siamo qui?

Sicuramente perché non ci siamo arresi al vuoto di pensiero e alla mancanza di prospettive.

E siamo qui anche perché le parole condivise con qualche amico sono divenute prima un libro e poi un’occasione di ulteriori riflessioni. Ma ancora non basta come risposta

Allora per provare a rispondere alla domanda del perché siamo qui, dobbiamo partire da una parola ben precisa che ci accomuna tutti: persone.

Siamo qui perché crediamo nel valore insostituibile di ogni persona.

E siamo qui per sfatare la convinzione che le persone non siano più interessate alla politica. E così provare a restituire proprio alle persone la loro sovranità.

In realtà le persone si occupano di politica ogni giorno. Ne parlano costantemente in famiglia, con gli amici quando condividono problemi di lavoro, di salute, di scuola, di sicurezza, di trasporti, di ambiente.

Le persone che parlano della propria vita, delle cose che contano, parlano sempre di politica, anche se non se ne rendono conto.

Cos’altro sono questi temi se non temi politici?

La verità è che le persone non hanno mai smesso di interessarsi alla politica. Sono state semmai estromesse dai suoi meccanismi. E così hanno smesso di credere nei politici e nei partiti. Si sono allontanate dalle urne. Hanno smesso di pensare che il sistema politico possa in qualche modo migliorare la loro vita o risolvere i loro problemi.

Ecco, noi vogliamo essere una dimostrazione che le persone possono ancora occuparsi di politica e di bene comune, ma anche che non sempre, non tutti, hanno trovato una comunità politica capace di coinvolgerli in un progetto trasparente e condiviso.

Questo siamo noi qui, oggi. Non il partito di qualcuno. Né quello voluto da qualcun altro. Non il palco di qualcuno. Non una platea di VIP, presunti VIP, o aspiranti tali. Ma un progetto. politico condiviso, tra noi.

Proprio perché la politica, quella autentica, è comunità. È partecipazione. È responsabilità condivisa.


E allora “cosa possiamo fare?”. Prima ancora di rispondere a questa domanda ce n’è un’altra domanda che, prima o poi, in tanti momenti della vita, tutti ci siamo fatti, magari con un pizzico di ironia:
“Dove siamo?”

Una domanda che suona sempre meno ironica e sempre più seria. Oggi la destra nel mondo sta provando a ridisegnare i valori sui quali abbiamo costruito le nostre democrazie. E la posta in gioco è davvero alta. E, cosa ancora più grave, tutto questo sta avvenendo con una fortissima spinta anche dagli Stati Uniti d’America che per tanti decenni sono stati il punto fermo di un ordine mondiale che ha garantito a noi, all’Europa, crescita, pace e progresso.

Oggi, invece, gli Stati Uniti oscillano tra apertura e chiusura, lacerati da profonde tensioni interne, mostrando quanto sia fragile una democrazia quando si trasforma in spettacolo.

Di fronte a tutto questo, noi – anche come Europa – dobbiamo chiederci in quale Occidente vogliamo davvero vivere.

Perché l’Occidente, come l’abbiamo conosciuto, non esiste più. Ne sopravvivono due versioni, due diversi Occidenti:

  • da un lato l’America che sceglie di isolarsi,
  • dall’altro un’Europa smarrita, ripiegata su sé stessa, nell’illusione che sia possibile custodire i privilegi del passato. Ma non è così.

Stare fermi in un mondo che cambia rapidamente sarebbe davvero la nostra condanna.

La Cina avanza con un modello di capitalismo autoritario e di efficienza impressionante, che affascina per la rapidità, ma che sacrifica libertà e diritti. La Russia, invece, ripropone vecchie logiche imperialiste e aggressive, che immaginavamo morte e sepolte e invece sono tornate. Il resto del mondo – dall’India al Brasile, fino a molti Paesi africani – osserva con distacco, e spesso con indifferenza, ciò che accade dalle nostre parti.

In un mondo di incertezze sul futuro, dove i nostri punti di riferimento sembrano cadere l’uno dopo l’altro, dove anche le guerre sono tornate a scuotere le nostre vite, dobbiamo tornare a credere nella nostra missione ed esserne responsabili.

È urgente che l’Europa si ricordi da dove è nata e non faccia mai vacillare il sostegno a chi è stato aggredito, all’Ucraina.

È indispensabile che l’Europa non risparmi la sua voce per criticare la Russia per aver ritenuto legittimo o normale affrontare una controversia internazionale con la violenza delle armi.

È fondamentale che la diplomazia dimostri la sua credibilità anche in questo difficilissimo dopoguerra israelo-palestinese.

Il diritto internazionale deve impedire che un Paese consideri gli altri come semplici pedine, comportandosi con arroganza e prepotenza. Non basta evocare la pace, bisogna farne un progetto politico. Non basta invocare l’uguaglianza, bisogna costruirla giorno per giorno. 

Per tutto questo e molto altro ancora, il mondo ha bisogno dell’Europa.

Ha bisogno della sua storia, della sua saggezza, dei suoi valori ancorati all’uguaglianza, alla libertà, alla fraternità. Ha bisogno della sua laicità e della sua religiosità aperta. Ha bisogno della capacità tutta Europea di guardare avanti senza lasciare nessuno indietro, forte della propria lunga, difficile e dolorosa storia.

Ma anche l’Europa ha bisogno del mondo. E per ritrovarsi deve avere la forza di parlare con una sola voce di fronte alle grandi sfide del nostro tempo. Sfide come:

  • la pace per la cooperazione tra i popoli;
  • la transizione ecologica e la necessità di una distribuzione qua dei suoi costi, affinché il peso delle trasformazioni non ricada unicamente sulla nostra industria;
  • la giustizia sociale, perché crediamo in una società che non è solo la somma di tanti individui.
  • evitare il controllo degli algoritmi, non delegare le autostrade digitali a pochi monopoli privati.

Tutte queste sfide sono vitali.

Solo così l’Europa può tornare a dare significato alla sua storia e speranza al suo domani.

Ecco, tutto questo è per dirci dove siamo. Adesso però confrontiamoci su cosa possiamo fare. Noi facciamo anzitutto politica. Senza chiedere il permesso a nessuno.

E lo facciamo insieme, perché la politica che ci piace non è quella delle comfort zone in cui si sono rifugiati oggi i partiti, ma deve nascere dall’impegno di ognuno. Pensiamo che le nostre idee debbano essere confrontate liberamente. Perché l’unico modo di evitare che la democrazia si corrompa e si spenga è riattivare la partecipazione di tutti.  La domanda più semplice da fare è: come vorresti che fosse il tuo Paese?. Rivolgendoci a tutti Nessuno escluso

A proposito di esclusioni, permettetemi di prendere a prestito le parole di Aldo Moro, per dire che dovremmo escludere:le “cose mediocri, per fare posto a cose grandi”.

Ecco, è anche da questo insegnamento che nascono i comitati Più Uno, per essere una rete viva, aperta al dialogo, concreta. Una rete che unisce, che ascolta, che include e ridà voce ai cittadini.
Proprio perché la politica non è e non può ridursi a leadership personali o a partiti chiusi nei propri equilibri interni, a circoli chiusi o a gruppi autoreferenziali, ma deve coltivare spazi di relazione, dove ciascuno possa sentirsi parte di un “noi” abbastanza ampio da ricomprendere tutti quelli che vogliono ricostruire una comunità.

Abbiamo bisogno di un messaggio di unità nuovo. In un tempo in cui si tende a tenere separati tutti – ricchi e poveri, centro e periferie, Nord e Sud, giovani e anziani, credenti e non credenti – “unire” non è un gesto retorico, è un atto politico di coraggio e di responsabilità.

Non una semplice unità di facciata, ma l’unità di chi è consapevole delle differenze e le considera una grande forza. Anzi, la ricchezza più grande. Non l’unità fondata su promesse ingannevoli, ma quella costruita sulla lealtà e sull’entusiasmo della partecipazione.

L’unità della nazione e l’unità delle nazioni; l’unità delle istituzioni democratiche; l’unità nei bilanci economici e in quelli sociali fra ciò che si dà e ciò che si riceve. L’unità fra presente e futuro. Fra ciò che si semina e ciò che si raccoglie. Fra l’investimento nella scuola e nella educazione e il dividendo economico che se ne ricaverà. Fra giustizia, pace e sviluppo. Fra bene comune e bene individuale.

Perché è solo nella fatica di tenere insieme che si misura la grandezza di una democrazia. E anche la sua fragilità quando non ci si riesce e l’unità va in frantumi.

Siamo assuefatti a una politica in cui ognuno parla ai suoi o a quelli che vorrebbe suoi.

E invece serve parlare a tutti per ricostruire quella comunità che il nostro Paese sembra avere perso.

La democrazia non vive di tifoserie: vive di popolo, di confronto, di ascolto reciproco.

Superare le divisioni, allora, è una necessità.

Una necessità che diventa vitale, soprattutto quando il dibattito è diventato ostaggio di tifoserie, quando il confronto conduce solamente a divisioni strumentali che danneggiano tutti.

Dobbiamo avere il coraggio di dirci almeno tra di noi che il nostro avversario – mai nemico – è solo chi soffia sul fuoco delle divisioni solo per il proprio tornaconto.

L’Italia deve ritrovare il coraggio di guardare in faccia i problemi e di confrontarsi senza dividersi per partito preso.

Solo così potremo tornare a sentirci parte di un destino comune; potremo tornare a dire – con semplicità e con orgoglio – che questo Paese è la casa di tutti.

Perché il Paese in cui desideriamo vivere è quello che tutti sentono proprio e di cui tutti si prendono cura.

Tutti, al di là delle nostre inevitabili differenze. Che non sono divisioni. Perché un Paese, per andare avanti, ha bisogno di tutti, nessuno escluso. Ma un Paese così fatto è possibile solo se uniamo il nostro destino a quello degli altri.

La verità è che un Paese diviso è un Paese più debole, più fragileDebole nel pensiero, nella fiducia, nello sviluppo.

Debole quando ogni cittadino guarda con sospetto chi gli sta accanto solo perché vota in modo diverso, vive altrove, appartiene a un’altra generazione o ha un’altra storia, o magari ha i genitori che sono arrivati in Italia da un altro paese.

Debole quando ci si scaglia contro qualcuno solo perché appartiene alla tribù opposta.

Un Paese così non cammina, si ferma. E la politica, quando arriva al punto di rottura, rischia di dover gestire solo le macerie della fiducia. La fine del bene comune.

È per questo che bisogna evitare, anzi combattere la polarizzazione politica, che trasforma ogni differenza in scontro e ogni idea in un muro. E poi finisce per vincere la destra, che è più brava a radicalizzare e non è interessata a una comunità.

Ecco perché oggi la vera sfida è unire: restituire agli italiani il senso di un Paese che cammina insieme anche quando discute, anche quando non è d’accordo.

Unire non significa cancellare le differenze, ma farle dialogare.

Significa riconoscerle, accoglierle, metterle al servizio di un progetto comune.

Vuol dire capire che la Repubblica non è una somma di fazioni, ma un intreccio di destini che si tengono insieme in un progetto più ampio.

Serve una politica che torni a parlare a tutti, non solo ai propri elettori.

Serve rigenerare la partecipazione. Perché l’astensionismo è il segnale di una frattura profonda.

Essere cittadini significa partecipare. Non basta andare a votare. Partecipare è molto di più: significa esserci, proporre, discutere, costruire. Significa sentirsi parte di un destino comune.

Ogni cittadino, ogni associazione, ogni persona può offrire qualcosa: competenze, tempo, idee, passione, generosità, empatia, intelligenza. Uno sguardo, un incoraggiamento, una stretta di mano o un abbraccio e anche una critica se serve.

Nessuno è inutile e soprattutto nessuno è sostituibile. Ognuno di voi è insostituibile.

È da questa consapevolezza che la politica può tornare ad essere servizio, e il Paese diventa davvero di tutti.

Perché quando i cittadini si sentono ascoltati tornano a credere nella politica.

Quando invece percepiscono distanza, autoreferenzialità o cinismo, allora si allontanano. E la democrazia si svuota.

L’astensionismo è un grido che non possiamo ignorare. Chi non vota non è semplicemente indifferente: è deluso, ferito, disilluso. Dobbiamo domandarci perché una parte così grande del Paese ha perso fiducia nella politica. Forse perché si è sentita invisibile, tradita da parole mai diventate fatti.

Il dovere della politica non è voltarsi dall’altra parte.  Ma di ricercare e riconquistare chi si astiene, offrendo una visione credibile di futuro.

È tutto qui il senso del nostro impegno e della nostra scommessa. Anzi, del nostro progetto. Un progetto fondato:

  • su una politica che unisce e non su una politica che divide;
  • su una politica che ascolta e non su una politica che comanda;
  • su una politica che costruisce speranze e non su una politica che alimenta paure;
  • su una politica che elabora insieme le proposte e non una politica che le annuncia.

Ci sono momenti nella storia di un Paese in cui la politica sembra aver smarrito il suo significato più profondo.

Stagioni in cui la politica sembra ridursi a conflitto quotidiano fatto di parole vuote, dichiarazioni e smentite, un rumore di sottofondo fine a sé stesso, uno scontro sterile tra schieramenti che si accusano a vicenda senza parlarsi davvero.

Ma è proprio in questi momenti che le differenze possono tornare a contare. Momenti in cui le parole non sono più intercambiabili. Momenti in cui siamo chiamati a compiere delle scelte.

Oggi è uno di quei momenti. Non si tratta di scegliere fra diversi programmi di governo, come fossero il menu del giorno. Nessuno di noi si identifica solo con un elenco di proposte dell’ultimo momento. Quello che ci definisce è la nostra storia, sono le nostre scelte. Quello che ci definisce è la capacità e l’ambizione di combinare e includere diverse idee in una visione comune.

È la differenza tra saper compilare una lunga lista della spesa e saper realizzare un buon menu.

Il punto è allora quello di scegliere tra modi diversi di intendere la società, la comunità, il futuro stesso di un Paese. Tra diversi modi di immaginare il futuro.

Da una parte c’è chi alimenta un racconto fondato sulla paura. Un racconto che guarda e riconosce solo le paure delle persone. Le amplifica. Le isola. Chi fa così parla alla pancia, mai al cuore e ancor meno alla testa delle persone. Privandole della loro dignità.

Dall’altra parte ci saremmo noi, se lo vogliamo. Noi che crediamo che la politica non debba spaventare o alzare muri, ma aprire strade guardando avanti e scegliendo la speranza.

Noi che crediamo che ci sia ancora nel nostro Paese chi crede che la politica non debba trovare nemici, ma costruire una grande comunità.

In questo percorso c’è una parola che ridà senso all’impegno politico e alla nostra democrazia. Questa parola è uguaglianza.

L’Italia è ancora un Paese segnato da profonde disuguaglianze: dalle scuole fatiscenti, alle infinite liste d’attesa della sanità pubblica, alle opportunità di lavoro, dalla sicurezza sociale.

Ci sono giovani che lasciano l’Italia perché non trovano un presente capace di credere in loro.

Donne che, ancora oggi, non possono vivere una vera uguaglianza con gli uomini.

Persone che vengono giudicate o escluse per ciò che sono, per la loro identità o per chi amano.

Famiglie che rinunciano a curarsi perché non possono permetterselo.

E anziani che non hanno più una vita davanti per aspettare di poter vivere con dignità.

Colmare questi divari deve essere la vera priorità della politica: non solo con infrastrutture, ma con politiche integrate per scuola, sanità, lavoro.

Per la destra le disuguaglianze sono un destino inevitabile della società.

Per noi, invece, l’uguaglianza è la strada su cui cammina la democrazia. La sua bellezza, la sua forza.

Non un’uguaglianza astratta, ma concreta, fatta di opportunità reali.

Non una uguaglianza statica, nella povertà. Ma un’uguaglianza che riesca a stare al passo con il progresso senza rinunciare ai propri ideali.

E questo vuol dire scuola pubblica di qualità in ogni quartiere, dal Nord al Sud, che dia a ogni bambino le stesse possibilità.

Vuol dire sanità universale che non faccia distinzione tra chi vive a Milano e chi a Reggio Calabria.

Vuol dire un fisco che non sia complice delle disuguaglianze, ma che redistribuisca equamente il carico del bene comune per ridare dignità a chi ha meno.

Vuol dire contribuire tutti, per contribuire meno. Rendersi conto che il costo individuale di ogni servizio istruzione, sicurezza, sanità… diventa molto più basso se condiviso.

Vuol dire che il genere o l’origine non debbano mai essere un ostacolo alla realizzazione personale.

Ecco perché siamo nel centro sinistra

E l’uguaglianza è anche il patrimonio fondamentale del centrosinistra.

Ecco, a proposito, ma quale centrosinistra? Oggi il centrosinistra forse non è perfetto, ma custodisce ancora un patrimonio unico: la convinzione che la politica sia proprio lo spazio dell’uguaglianza e del bene comune.

Ecco perché noi scegliamo di fare politica nel centrosinistra.

Perché vogliamo un Paese che dia valore al lavoro, che abbia il coraggio di investire nella scuola e nella sanità. Un paese che non lasci indietro i fragili, che difenda l’ambiente, che creda nell’Europa, che parli di pace e non di paura. E che non scambi la pace con la resa. Che sappia combattere per la pace. Con creatività. Con concretezza. Senza paura.

Anzi, scusatemi, voglio ripetermi, che creda nell’Europa come l’hanno sognata i suoi padri fondatori.

Un Paese che creda davvero nei giovani e dunque nella possibilità di crescita e futuro. Un Paese dove la giustizia sociale non sia una parola d’archivio, ma un progetto di governo.

Un Paese che – come fece Mattei con l’Eni – abbia il coraggio di affrontare dei temi nuovi, che oggi sono quelli del digitale, della intelligenza artificiale, con l’ambizione di essere protagonista dell’innovazione.

Un paese che sia in grado declinare il concetto di unità e di eguaglianza

Abbiamo sempre pensato al centrosinistra come a un progetto plurale e una sintesi di culture politiche diverse, capace, con la sua ambizione, di rappresentare tutta la società e non solo una sua parte.

Tutte quelle importanti storie – cattolica, socialista, liberale, riformista e democratica – sono nate in tempi e con linguaggi diversi, ma erano accomunate dalla volontà di costruire una casa comune per chi crede nella democrazia, nella Costituzione e nel progresso dell’Italia. Come sarà la democrazia nell’era digitale? Dove sarà il lavoro e come sarà il lavoro?

L’idea del moderno centrosinistra nasce trenta anni fa. Trenta anni fa. Come risposta storica alla frammentazione delle culture politiche del Novecento, con l’obiettivo di offrire una sintesi alta e non una semplice somma.

Non con il compito di unire “a freddo” culture diverse affinché potessero coesistere in un unico contenitore, ognuna con le proprie idee.

Ma un progetto capace di superare le appartenenze tradizionali per restituire un orizzonte comune. Condiviso. Nuovo.

Era la straordinaria idea dell’Ulivo. Quella intuizione, supportata dai gruppi dirigenti dei partiti di allora, che consentì di battere per ben due volte la destra. Le uniche due volte con Romano Prodi. Colgo l’occasione per ringraziarlo per le parole di stima e per l’interesse con cui ha segue il percorso di Più Uno.

Un’idea, un’intuizione capace di mettere insieme le grandi culture democratiche costituzionali, aperte all’energia dei movimenti, capace di valorizzare il protagonismo civico, la ricchezza dei territori e delle competenze. Un’idea più che mai anche oggi attuale per ambire al governo che verrà.

Un’idea del tutto diversa e distante da quella del “campo largo” con dei confini coincidenti con quelli dei partiti esistenti e con i volti degli attuali protagonisti. Perché al di fuori di quei confini del “campo largo” c’è il “campo aperto” dove sono le persone che non vanno più a votare e che vanno rimotivate.

Nell’idea del “campo largo” il Partito Democratico sembra invece voler coltivare una vocazione minoritaria di fronte a una destra molto forte che sembra invincibile, ma non lo è affatto. La vocazione a voler rimanere minoranza per poter crogiolarsi in una critica sterile e sentirsi dalla parte del giusto, senza l’ambizione di volersi concretamente misurare con la realtà.

Ma questa vocazione minoritaria vuol dire arrendersi alla realtà senza alcuna ambizione di volerla davvero cambiare. Dimenticandosi però che fare politica non è amministrare il presente. 

Ecco, questa nuova vocazione è il massimo della irresponsabilità davanti ai cittadini, davanti a noi stessi. Significa rinunciare a interpretare il tempo che cambia, per rifugiarsi a contare le percentuali dei sondaggi invece dei voti nelle urne.

Il fatto è che il consenso vive di una relazione quotidiana. Mentre quello a cui assistiamo oggi è una politica che non è in grado di dare voce alle persone. Forse non riesce nemmeno a vederle così concentrata come è su sé stessa.

Se una cosa ci insegna la recente elezione del sindaco di New York è la straordinaria partecipazione.

Da noi, invece, per dire una cosa semplice, le primarie – che sono un grande strumento di partecipazione – sono diventate un’opzione invece della regola.

Sono convocate solo se convengono a leader che vorrebbero trasformarle a tavolino in plebisciti.

Ma così non si va lontano. Ci si condanna a ricommettere sempre gli stessi errori.

Oggi, l’idea di centrosinistra sembra tramontata perché i suoi protagonisti hanno smesso di cercare pazientemente una sintesi tra culture diverse. E così si dicono alla ricerca di un partito “di centro” da utilizzare come stampella. Ma ilgruppo dirigente di un partito non può ispirare la nascita di un altro partito che diventa servente/strumentale.

Il Partito Democratico non può delegare a un soggetto esterno il compito di fare il centro, di rappresentare il riformismo. Questo è un esercizio geometrico, sicuramente non politico.

Pensare che partiti nati a tavolino possano smuovere elettori è come pensare di accendere un fuoco disegnando una fiamma su un foglio. E di fiamme ne abbiamo già abbastanza, scusatemi lo sconfinamento.

Per questo noi non siamo qui per rifare il centro, non siamo qui per fare un cespuglio, non siamo qui per un cartello elettorale, non siamo qui per uno sterile dibattito politicista.

Siamo qui per fare politica, senza cedere alla tentazione di attribuirci delle etichette.

Siamo qui senza l’ansia di parlare di nomi, perché la politica non è un reality show e noi non siamo interessati né ai talent show, né alle nomination.

Le cose non si cambiano con una retorica ben congegnata o con i giochi di parole. Non si cambiano sentendosi giusti in un video su tik tok. Le cose non si cambiano con un sorriso a effetto in televisione.

So perfettamente quanto sia importante oggi la comunicazione. E penso che in qualche misura la personalizzazione abbia persino una funzione democratica. Ed è anche giusto che gli elettori conoscano la personalità e la storia personale di chi votano. Perché quella personalità e quella storia saranno determinanti nel prendere decisioni davanti all’incertezza.

La politica di oggi richiede anche questo. Lo so. Ma non possiamo perdere di vista il vero obiettivo: delineare una visione d’insieme, un progetto capace di dare un futuro al Paese.

Sono consapevole che la politica moderna sia fatta anche di questo. Ma l’obiettivo deve comunque essere quello di una visione complessiva, di un progetto di Paese.

E per un’idea di Paese mi affido a cosa diceva Aldo Moro che risulta quanto mai attuale: “Non è importante che pensiamo le stesse cose […], ma è invece straordinariamente importante che […] tutti abbiano il proprio libero respiro” nel rispetto e nel dialogo.

Rileggendo queste parole mi convinco che Più Uno le abbia nel suo DNA.

E c’è un’altra parola che dobbiamo richiamare: la parola fiducia.

Perché in questi tempi difficili la fiducia è la sola cura contro l’indifferenza e l’individualismo.

E io vi devo molto perché oggi mi avete dimostrato fiducia.

Facciamoci guidare tutti dalla fiducia in ogni sfida.

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