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«Come faccio a dire oggi di no se io stesso, tanto tempo fa, ho indicato la necessità di cambiare quella Costituzione?».
Appunto, professore, come fa?
«In questo momento il mio è un atto di coerenza, è un sì che non intende avere un significato diverso di quello che gli è proprio, ma che tiene conto dei cambiamenti proposti e che li ritiene, seppur frutto di un evidente compromesso, o di più compromessi, un serio tentativo di rinnovamento».
Come è possibile rinnovare un Costituzione che per molti è la più bella che mai sia stata scritta?
«Evidentemente perché non è la più bella, perché ha in sé più di una contraddizione, perché era adatta ai tempi in cui è stata scritta, che esigevano un netto e radicale riscatto e distacco dal fascismo, ma non per un adesso che richiede novità e il coraggio di chiarire ciò che s’intende per diritto naturale e diritto positivo, tra norma e norma fondamentale, tra economia e tecnica».
Quindi, serve un «sì» per cambiare davvero…
«In realtà, neanche i promotori del “sì”, io compreso, possono essere sicuri che da lì incomincerà il grande cambiamento. Però, come ebbi a dire in tempi recenti, se la politica autentica del nostro tempo consiste nel capire la radicalità della trasformazione in atto sul pianeta, allora sperare che un semplice “sì” produca effetti concreti, non è illusorio».
Però lei ha anche detto che «l’Italia è uno stato acerbo»…
«Ho anche detto che ogni cosa acerba è destinata a diventare matura».
Ma, davvero il prossimo referendum può essere l’occasione buona per passare dall’acerbo al maturo?
«È un passaggio, forse fondamentale, tra ciò che eravamo e ciò che siamo destinati a essere. Se rinunciamo a rivendicazioni di retroguardia, forse superiamo indenni il guado che la storia ci pone davanti».
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