Cinzia Gubbini, Politiche sociali nella Regione Lombardia: 1. Un servizio molto poco sociale; 2. Intervista a Paolo Ferrario, in Il Manifesto 27 luglio 2010

Cinzia Gubbini – INVIATA A BRESCIA
WELFARE ADDIO
Un servizio molto poco sociale
La privatizzazione dei servizi di assistenza ha portato in Lombardia a una precarizzazione del lavoro degli assistenti. E’ il modello Formigoni, che finisce col penalizzare le famiglie più deboli
Elena vive in una casa in affitto in un paese in provincia di Brescia. Ha 35 anni e la sua non è una situazione facile: due figli minorenni, un divorzio alle spalle con un uomo disoccupato, nessuna prospettiva di lavoro. La sua occupazione principale al momento è cercare di orientarsi nel labirinto delle offerte dei servizi sociali lombardi. Una specie di supermarket in cui, per poter riempire il carrello, devi avere la mente lucida e la fortuna di incontrare qualcuno che ti sappia dare la dritta giusta. A Elena al momento non va malissimo: «Ho incontrato persone per bene, per esempio i volontari della Caritas», spiega. Bussando più e più volte alle porte del Comune – governato da un sindaco della Lega – è inoltre riuscita a mettere insieme un po’ di aiuti: «Per la scuola dei bambini ho ottenuto la “dote scolastica” – racconta – si tratta di un libretto con dei buoni da 10 euro, circa 120 in totale, con cui comprare i libri e tutto il resto». Poi ha ottenuto un contributo per sei mesi all’affitto, circa 450 euro. Infine, mostrando le bollette scadute, le hanno dato dei soldi per il riscaldamento. Ma se chiedi a Elena in base a quale bando ha «vinto» quei soldi risponde: «Non ne ho proprio idea, io dico qual è il problema, poi mi chiamano se ci sono dei soldi». E in quanto ai suoi reali bisogni, insiste «vorrei soltanto un lavoro, ma quello nessuno me lo trova».
A guardarla è evidente che Elena è prima di tutto una ragazza fragile, con un sacco di problemi alle spalle e l’incapacità di progettare da sola un futuro. Ma per questo tipo di multiproblematicità non è prevista la presa in carico nella regione Lombardia. Qui nella terra di Roberto Formigoni, presidente della regione al suo quarto mandato, i servizi sociali tradizionalmente intesi hanno cambiato volto da almeno quindici anni. Un terremoto, un cambio di stile. Un nuovo sistema che farà scuola nell’Italia federalista. Formigoni, fiero esponente di Comunione e Liberazione, si è applicato con particolare attenzione all’ambito dei servizi sociali, un po’ per la sua formazione culturale, un po’ perché il vasto e variegato mondo del privato sociale lo ha tenuto a battesimo. Da lì viene, e non se lo è scordato. E il privato sociale è oggi la vera spina dorsale della rete dei servizi sociosanitari lombardi. Ma qual è il modello-Formigoni patron di una regione di destra, dove si è saldato il connubio del cattolicesimo conservatore con la Lega, e che fa del federalismo la propria bandiera?

Il modello lombardo
Intanto è necessario avere qualche indicazione per orientare la bussola. In realtà è semplicissimo, perché tutto con la legge 31 del ’97 è stato semplificato e compartimentato. Alla regione spetta il cosiddetto Pac, cioè la programmazione, l’acquisto e il controllo dei servizi. Al privato sociale e cooperativistico spetta mettersi sul mercato per chiedere l’accreditamento e diventare così fornitori del servizio. All’utente spetta scegliere da chi vuole farsi assistere, utilizzando sostanzialmente due strumenti, già previsti dalla legge nazionale 328 del 2000 varata dal centrosinistra e prima legge quadro sui servizi sociali: i buoni e i voucher. I primi sono i vecchi contributi economici, che vengono riconosciuti alla famiglia come parziale risarcimento dell’assistenza che presta ai soggetti deboli – minori, anziani, disabili. Il voucher, invece, è un titolo sociale che quantifica le prestazioni e che deve essere speso presso quelle cooperative e associazioni che si sono accreditate. Ultima notazione: le Asl, che sono state negli anni accorpate, si occupano di gestire la parte sanitaria che è prevalentemente gratuita. Ai Comuni spetta invece la gestione dei servizi socioassistenziali, che sono prevalentemente a carico dell’utente – il quale può accedere a buoni e voucher se ha un basso reddito o determinate caratteristiche famigliari. Questo il quadro che potrebbe piacere a molti governatori, non solo di destra. Ma funziona?

Centralismo federalista
Per capirlo siamo andati a parlare con chi i servizi sociali li fa, o almeno li faceva: gli assistenti sociali. Categoria professionale che ha cambiato volto negli ultimi anni. Apparentemente lievitano i titoli di studio, ma si precarizzano le condizioni di lavoro. Molti di loro ormai lavorano a progetto, è difficile che rilascino dichiarazioni ai giornali con nome e cognome. Fatto sta che il dato generale è chiarissimo: si sentono ormai messi da parte, lamentano una decadenza del proprio ruolo «soprattutto una scissione ormai irrecuperabile tra il livello politico e quello tecnico: i politici decidono sulla base delle loro ideologie e delle loro priorità, senza nulla sapere nel merito dei servizi sociali. A noi tocca eseguire», spiega una delle assistenti sociali della Provincia di Brescia, Giovanna Lazzaroni.
Angiola Uberti vive a Palazzolo e ha iniziato la professione di assistente sociale nel ’74. Se ne è andata in pensione due anni fa, e già nel 2002 rinunciò a un incarico fiduciario nella Asl in cui lavorava perché non condivideva il nuovo sistema che portava alla privatizzazione dei servizi. «Io credo fermamente nel fatto che la gestione del servizio debba rimanere in mano pubblica – spiega – perché è più facile il controllo, ma anche il confronto tra gli operatori che è vitale per il servizio sociale». L’esternalizzazione dei servizi alle cooperative – per quanto possano essere ottime – ovviamente pone un ostacolo a questo tipo di processo. Angiola viene proprio da un altro mondo: la sua carriera è iniziata alle Stelline , il «mitico» istituto milanese per le ragazze orfane o con problemi in famiglia. I suoi ricordi sono un fiume in piena, eco di un mondo che non esiste più: «Noi eravamo studentesse, eppure la nostra parola contava. Mi ricordo che quando entrai volevano spostare l’istituto in campagna, avevano progettato un meraviglioso complesso pieno di tutti i confort. Noi ci opponemmo: cosa dovevano fare le ragazze là, in quella prigione dorata? Noi dovevamo insegnare loro ad avere a che fare con la vita, a riscattare se stesse giorno per giorno». Il progetto, con tutto quello che era costato, fu buttato alle ortiche. «Era un periodo in cui si discuteva moltissimo, ci si arrabbiava, ma si voleva cambiare», racconta Angiola. Un periodo di grande creatività, in cui la formazione delle assistenti sociali era in mano a professori come Giuliano Della Pergola e Guido Romagnoli. «Certo – riflette Angiola – poi deve venire il periodo delle regole», che è arrivato con la riforma sociosanitaria delle Usl (proprio qui a Brescia partì la battaglia perché fossero denominate “Ussl”, premettendo alla “s” di sanitarie quella di socio, cioè sociale). Anni in cui si è andati avanti per tentativi ed errori, forse con qualche sbavatura e con poca attenzione agli sprechi. Ma quando è arrivato Formigoni la virata impressa ai servizi sociosanitari non è piaciuta a una come Angiola: «Il primo effetto è stata una forte centralizzazione: non veniva più ascoltato ciò che proveniva dal territorio. Non c’era più possibilità di esprimere la benché minima perplessità. Poi dal 2000 hanno cominciato anche a mettere in piedi un sistema fatto di valutazioni, «pagelle», obiettivi che sia i lavoratori che i dirigenti devono raggiungere in base a criteri che però vengono stabiliti dalla regione e non sono concordati. Così succede – conclude – che ogni operatore deve lavorare affinché il direttore generale raggiunga gli obiettivi stabiliti».

Il punto di vista delle cooperative
L’insoddisfazione che si percepisce dalle parole degli assistenti sociali, specialmente quelli della «vecchia scuola», è presente in realtà anche in chi lavora nelle cooperative. S. è in pensione dal 2010, ma preferisce non rivelare il suo nome perché ora lavora come formatrice per una rete di cooperative molto influenti nella provincia di Brescia. La rete di cooperative si occupa di anziani, minori, psichiatrici e gestiscono anche un Sert privato – ultima frontiera della esternalizzazione modello Formigoni. Dal punto di vista di S. «gli standard che la regione Lombardia pretende dal privato sociale sono in realtà molto alti, e il controllo è piuttosto efficiente. Il problema è che la remunerazione non lo è altrettanto, tanto che in realtà il passaggio al privato per la regione molto spesso è un guadagno. Sei tu che lavori in cooperativa a dover inventare soluzioni alternative per rendere più efficaci le risorse». Nel magico mondo del mercato la regione cerca di risparmiare, e l’effetto sul privato è perverso. S. porta l’esempio delle residenze per anziani: «La valutazione del bisogno dell’anziano viene fatta sugli aspetti di motricità, comorbilità e comportamento, in questo ordine. Così succede che se io aiuto una persona a camminare non vengo premiata».
L’altra tendenza che si sta affermando, sempre in un’ottica di risparmio, è la progressiva integrazione delle prestazioni sanitarie – che sono gratuite – con quelle socioassistenziali – che sono in parte a carico dell’utente «con il rischio – dice S. – che venga meno la gratuità della parte sanitaria diventando tutto a contribuzione».

Il nodo culturale
Ma non è solo una questione di soldi. Alla base del modello c’è anche, ovviamente, una visione culturale. Permea tutto un asse valoriale cattolico, che pone al centro la vita «difesa «in ogni sua fase» e la famiglia sostenuta «con adeguate politiche sociali», come recita il nuovo statuto della regione, approvato nel 2008. Ma questa impostazione può essere un’arma a doppio taglio: «Un elemento cardine delle leggi lombarde sui servizi sociali è la cosiddetta ‘sussidiarietà orizzontale’, che nasce per mettere al centro l’individuo e i suo legami famigliari, ma che di fatto sta caricando la famiglia di compiti e responsabilità che non le sono propri», osserva ancora Giovanna Lazzaroni dalla provincia di Brescia. Così, tanta attenzione per la famiglia – ed è ovvio che si parli di famiglie con qualche problema – finisce per essere un boomerang. Ma non solo. Lo schema secondo cui il livello politico controlla, e il livello tecnico esegue comporta che il primo decide anche sulle priorità, aldilà di una reale lettura dei bisogni della società attuale. «Oggi non esiste più il soggetto con un solo problema, ad esempio quello economico – spiega D. L., formatrice della provincia di Brescia – la nuova emergenza è quella della multiproblematicità: lo sfaldamento dei riferimenti sociali determina che chi perde lavoro entra velocemente, ad esempio, in depressione, perde la capacità di relazionarsi con la sua famiglia, entra nel tunnel di qualche dipendenza». Ci sarebbe bisogno, insomma, di una vera potenza di fuoco da parte dei servizi per rispondere a questo tipo di situazioni: «La realtà purtroppo è ben diversa – aggiunge D. L. – la privatizzazione causa un disinvestimento sulla formazione e sulla ricerca. E contemporaneamente le politiche sociali sono in balia del partito di turno. Ultimamente mi è capitato di sentire, da parte di un assessore della zona, che non aveva senso investire sulla mediazione famigliare perché tra moglie e marito se la vedono tra loro».

da : http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20100727/pagina/08/pezzo/283363/

Cinzia Gubbini

“La cricca di Cl fagocita tutto”

«La regione Lombardia ha creato un nuovo modello: usare il sistema liberista con il bilancio pubblico». Paolo Ferrario docente a contratto privato della Università di Milano Bicocca, insegna Politiche sociali. È da anni ormai un attento osservatore delle trasformazioni dei servizi sociali lombardi.
Cosa intende con il termine sistema liberista nei servizi sociali?
La legge del ’97 ha messo in concorrenza soggetti privati che vendono il loro prodotto, cioè il servizio. La Regione ha stabilito dei criteri generali attraverso cui accreditare questi soggetti. Se il cittadino li sceglie, allora la Regione restituisce al soggetto produttore il costo del servizio.
Detta così non sembra male. Cosa c’è di sbagliato?
Che stiamo parlando di servizi sociali, e in questo ambito lo schema studiato in Lombardia funziona solo per alcune attività: quelle remunerative. Un buon esempio possono essere i laboratori di analisi: l’offerta in Lombardia è altissima, superiore alla domanda tanto che non ci sono code per chi ha necessità di fare gli esami del sangue. La situazione è ben diversa per tutti quei servizi legati alla cronicità – psichiatrici, disabili, ma anche dipendenze. Il perché è semplice: costano molto di più, sono molto più impegnativi e molto meno remunerativi. Ma non funziona neanche con i Pronto soccorso, per le stesse ragioni: costi troppo alti. Cosicché non si riescono a trovare abbastanza soggetti da mettere in concorrenza su questi terreni, che pure sono essenziali per la struttura dei servizi sociali. Dunque, uno schema puramente ideologico non può funzionare nell’ambito dei servizi sociali: occorre valutare situazione per situazione.
Eppure la Lombardia è la «capitale» delle Residenze per anziani, un tipico esempio di servizio sociale privato legato alla cronicità: la vecchiaia…
Giusto, ma si tratta di un caso particolare: le Rsa erano già private. Ben prima della legge quadro sui servizi sociali del ’97 erano già 600. Di certo avevano una caratteristica «localistica»: i consigli d’amministrazione erano legati al territorio. Vi sedevano dall’assessore al sindaco. Era comunque una rete ben sviluppata ed era logico valorizzarla. E infatti la Regione lo ha fatto, investendo moltissimo denaro. Il problema sono i nuovi servizi.
Il nodo è, insomma, la compatibilità dei costi.
Il nodo è il funzionamento del mercato, che va bene in questi casi solo se è regolato. Se esiste cioè un soggetto che si incarica di capire dove ce ne sono di più e dove ce ne sono di meno e di garantirli. Soprattutto non va bene la concorrenza perché necessariamente innesca un processo di corsa al prezzo al ribasso, che nei casi di sanità e servizi sociali genera mostri. Poi ci ritroviamo con le cliniche che inventano gli infartuati, come documentato da una puntata di Report su Rai3, per poter ottenere i finanziamenti e starci così con i costi, oltre ovviamente al lucro.
Non c’è chi misura i bisogni, però una delle critiche che più spesso si sente fare sull’organizzazione dei servizi sociali lombardi è che sono centralizzati. E’ così?
Distinguerei tra il livello comunale e quello regionale. La regione governa le Asl e il settore sociosanitario, ai Comuni resta la gestione del segmento sociale in cui ovviamente l’impatto dell’ideologia leghista diventa più forte. Ma non sottovaluterei il fattore ideologico del livello regionale, dove la centralizzazione è massima. Occorre dire la verità: in Lombardia il vero scandalo è che a governare è una cricca del sottosistema religioso: Comunione e Liberazione. Hanno occupato tutti i vertici, sono un vero gruppo di potere che ha le sue ideologie, i suoi leader e i suoi rituali. E le sue priorità. Lo smisurato sviluppo della diagnostica e la decisione di investire in questo settore, allora può anche essere letto con la lente della bioetica.

da: http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/07/articolo/3141/http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/07/articolo/3141/

2 commenti

  1. sì alessandra
    è per non perdere questa traccia
    l’articolo rende ababstanza bene l’ideologismo del cosiddetto modello lombardo.
    anche se la questione è un po’ più articolata. ci sono su polser audio e dispense nelle quali sono molto più argomentativo. un articolo obbliga ad essre troppo sbrigativi.
    però questa storia di CL comunione e liberazione cricca talebana è proprio vera. uno dei più potenti fallimenti della sinistra è quella di avere contrapposto solo chiacchere ottocentesche ad un modello prepotente, arrogante, fazioso, intollerante incarnato nel sorriso da squalo del governatore lombardo

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